Il Sole Domenica 24.1.16
Robert L. Spitzer (1932-2015)
Ordine nel disordine mentale
Definito
da «Lancet» il più influente psichiatra del nostro tempo, espunse
l’omosessualità dalla lista delle patologie del DSM, di cui fu uno dei
fondatori
di Vittorio Lingiardi
Robert Leopold
Spitzer, che The Lancet definisce «the most influential psychiatrist of
his time», è morto, un mese fa, a 83 anni. Figlio di Benjamin e Esther
Spitzer, un ingegnere e una pianista, cresce nell’Upper West Side di
Manhattan. Nel 1953 si laurea in psicologia alla Cornell University e
poi nel 1957 in medicina alla New York University. Nel 1966 si diploma
al Columbia University Center for Psychoanalytic Training and Research,
ma, scettico verso la psicoanalisi, dedicherà la sua vita alla diagnosi
psichiatrica. Dare alla psichiatria una lingua franca e una struttura
diagnostica basata su standard di ricerca è stata la sua missione. Gran
parte dell’impianto e della nomenclatura diagnostici a cui oggi
ricorrono gli psichiatri di mezzo mondo è frutto del suo lavoro di
responsabile delle task force che diedero vita alla terza edizione del
DSM, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
dell’American Psychiatric Association (APA). Quella del 1980 che,
insieme alla versione revised del 1987, introdusse alcune tra le più
significative, ma anche controverse e talora “ingombranti”, categorie
diagnostiche.
Nel lexicon psichiatrico incluse numerose etichette:
anoressia, disturbo bipolare, disturbo da panico, disturbo da stress
post- traumatico e molte altre diagnosi i cui nomi oggi ci sono
familiari. Il manuale triplicò le sue dimensioni e iniziò a esercitare
un enorme influenza nella clinica come nella ricerca. Un successo
inatteso, più di un milione di copie. «Solo un maestro della psicometria
poteva creare il DSM-III – afferma Allen Frances – e solo un maestro
del mercato poteva convincere i clinici del bisogno di usarlo».
Tuttavia, con la quarta edizione, che fu proprio Frances a coordinare,
l’APA decise di attenuare la leadership di Spitzer, considerato da
alcuni troppo autoritario. Qualcosa gli era sfuggito di mano. Nel 2012
afferma di essere preoccupato che il sistema iperdettagliato da lui
ideato stava diventando troppo ampio, e correva il rischio di
patologizzare comportamenti che rientravano nella normalità. Accusa che
Frances rivolge in modo ancor più radicale all’ultima edizione del DSM,
la quinta. Si torna insomma all’annoso dibattito «limiti e vantaggi del
DSM», su queste pagine già ampiamente affrontato (vedi 10 marzo 2013, 20
aprile 2014, 31 agosto 2014), che scioglierei dicendo che basta
considerarlo una guida e non una bibbia, non colludere con le case
farmaceutiche che conducono campagne commerciali cavalcando le novità
diagnostiche, non ridurre la formazione psichiatrica all’apprendimento
di una lista di sintomi da compilare, ignorando la centralità della
relazione e la soggettività del paziente (e del clinico).
L’idea
di Spitzer era che, per essere credibile, l’intera comunità psichiatrica
doveva avere un linguaggio condiviso riferito a ciò che si vedeva nella
pratica clinica. Il contesto professionale in cui era cresciuto dava
poca importanza all’assessment clinico, e lui era rimasto molto colpito
da alcuni studi che, all’inizio degli anni ’70, dimostravano gli effetti
terapeutici negativi del disaccordo diagnostico. A quell’epoca, in
effetti, le diagnosi potevano variare parecchio, da nazione a nazione e
da psichiatra a psichiatra. Lo stesso paziente poteva essere
diagnosticato ansioso da un clinico, depresso da un altro, nevrotico da
un altro ancora. Spitzer puntò tutto sull’accuratezza diagnostica:
questa fu la sua forza, e al tempo stesso il suo limite.
L’inevitabile
conseguenza fu la medicalizzazione della sofferenza mentale, la
relativizzazione delle componenti relazionali, la riduzione del quadro
psicopatologico a un elenco di sintomi presenti/assenti, una visione dei
disturbi mentali come idee platoniche. D’altro canto, senza la
possibilità di formulare diagnosi affidabili e, in un certo senso,
“misurare” sintomi e comportamenti, il rischio di indicazioni
terapeutiche inappropriate, se non addirittura dannose, è elevatissimo.
Spitzer combatté per differenziare condizioni cliniche generiche come la
nevrosi d’ansia in forme sintomatologicamente descrivibili, per esempio
il panico, la fobia sociale o il disturbo d’ansia generalizzato.
Termini impregnati di pregiudizio, come “frigidità”, furono ridefiniti
in termini clinici, come “inibizione del desiderio sessuale”. Litigò con
tutti. Con gli psicoanalisti, ai quali bocciò il termine “nevrosi”,
mostrandosi insofferente verso i misteri dei conflitti inconsci
(«Piuttosto che appellarsi a un’autorità, l’autorità di Freud – dice in
un’intervista del 2005 – la domanda è: ci sono degli studi? Ci sono
evidenze scientifiche? Siamo guidati da dati?»), e con le femministe,
perché volle includere la sindrome pre-mestruale tra i disturbi mentali.
Fu però molto amato da gay e lesbiche, perché a lui si deve una scelta
che cambiò la storia: l’eliminazione della diagnosi di omosessualità dal
DSM. Le ricadute sociali, politiche, psicologiche di questa decisione
sono sotto gli occhi di tutti. In occasione della morte di Spitzer, lo
psichiatra Jack Drescher dichiara: «Il fatto che il matrimonio gay sia
oggi una realtà lo dobbiamo in parte anche a Bob».
Paradossalmente,
proprio Spitzer, il paladino della depatologizzazione
dell’omosessualità, qualche anno fa finì nel mirino sia dei movimenti
LGBT sia dell’APA. La causa fu un’incauta ricerca in cui si proponeva di
dimostrare il successo della “terapia riparativa” in persone gay
particolarmente motivate. Lo studio conteneva errori e ingenuità (per
esempio si basava su semplici risposte telefoniche alla domanda «dopo la
terapia ha cambiato orientamento sessuale?»), ma Spitzer mostrò la sua
tempra e il suo rigore scientifico sia imbarcandosi in una ricerca così
follemente “controcorrente”, sia riconoscendo poi, con articoli e
pubbliche ritrattazioni, l’inattendibilità della sua ricerca.
Aggiungendo: «è forse l’unica cosa della mia carriera di cui mi pento».
Era attratto magneticamente dalle dispute scientifiche e spinto
continuamente dal desiderio di sfidare l’establishment psichiatrico. Nel
ricordarlo, Frances ne sottolinea «la passione per la giustizia, la
conoscenza scientifica, l’ostinata determinazione, l’acume politico, le
capacità dialettiche, e il piacere per le discussioni infervorate».
Concludendo che «Bob era la forza irresistibile che alla fine riusciva a
rimuovere l’oggetto inamovibile».