Il Sole Domenica 24.1.16
Da Weimar a Parigi
Guerra allo Stato di diritto
Depoliticizzazione, rinuncia alla certezza delle leggi, paura:
così si negano le libertà per rispondere al terrorismo
di Giorgio Agamben
Non
si può comprendere la reale posta in gioco nella proroga di tre mesi
dello stato d’emergenza in Francia, se non la si situa nel contesto
d’una trasformazione radicale del modello statale cui siamo avvezzi.
Occorre innanzitutto smentire le affermazioni di politici
irresponsabili, secondo i quali lo stato di eccezione sarebbe un
baluardo per la democrazia. Gli storici sanno perfettamente che è vero
il contrario. Lo stato di eccezione è il dispositivo attraverso il quale
i regimi totalitari si sono insediati in Europa. Negli anni che hanno
preceduto l’ascesa al potere di Hitler, i governi socialdemocratici di
Weimar si erano avvalsi così spesso dello stato di eccezione che si può
affermare che la Germania aveva già smesso d’essere una democrazia
parlamentare ancor prima del 1933. Dopo la sua nomina, il primo atto di
Hitler fu la proclamazione di uno stato di eccezione, che non venne più
revocato. Quando ci si stupisce dei crimini commessi impunemente in
Germania dai nazisti, si dimentica che si trattava di atti perfettamente
legali, poiché il Paese si trovava in stato d’eccezione e le libertà
individuali erano sospese. Non c’è ragione di credere che un tale
scenario non possa riproporsi in Francia: non è difficile immaginare un
governo di estrema destra sfruttare ai propri fini uno stato d’emergenza
cui i cittadini sono già stati abituati dai governi socialisti. In un
Paese che vive in uno stato d’emergenza prolungato, in cui le operazioni
di polizia si sostituiscono progressivamente al potere giudiziario, ci
si deve aspettare una disgregazione rapida e irreversibile delle
pubbliche istituzioni.
Tutto ciò è ancor più vero in quanto lo
stato di eccezione s’iscrive oggi nel processo che sta trasformando le
democrazie occidentali in qualcosa che bisogna ormai chiamare “Stato di
sicurezza” (Security State, per dirla con i politologi americani). Il
termine “sicurezza” si è talmente integrato nel discorso politico che
possiamo affermare che le “ragioni di sicurezza” hanno stabilmente preso
il posto di quel che una volta s’intendeva per “ragion di Stato”.
Benché questa nuova forma di governo non possa più essere spiegata nei
termini del moderno Stato di diritto, un’analisi della sua struttura è
tuttora mancante. Proveremo pertanto a fissare qualche punto in vista di
una possibile definizione.
Nel modello di Thomas Hobbes, che così
profondamente ha influenzato la nostra filosofia politica, il contratto
che consente di trasferire i poteri al sovrano presuppone la reciproca
paura e la guerra di tutti contro tutti e lo Stato è ciò che mette fine
alla paura. Nello Stato di sicurezza, questo schema s’inverte: lo Stato
si fonda stabilmente sulla paura e deve ad ogni costo mantenerla, perché
trae da essa la sua funzione essenziale e la sua legittimità. Foucault
aveva già dimostrato che, quando il termine sicurezza appare per la
prima volta nel discorso politico francese con i governi fisiocratici
prima della Rivoluzione, non si trattava di prevenire le catastrofi o le
carestie, ma di lasciarle accadere per poterle poi guidare e orientare
verso la direzione ritenuta più conveniente. Parimenti, la sicurezza di
cui si parla oggi non mira a prevenire gli atti terroristici (cosa del
resto assai difficile, se non impossibile, poiché le misure di sicurezza
sono efficaci solo ad attacco avvenuto e il terrorismo è per
definizione una serie di attacchi improvvisi), ma a stabilire un
controllo generalizzato e senza alcun limite sulla popolazione (di qui,
la concentrazione sui dispositivi che permettono il controllo totale dei
dati informatici dei cittadini, compreso l’accesso integrale al
contenuto dei computer).
Il rischio è qui la deriva verso la
creazione d’una relazione sistemica tra terrorismo e Stato di sicurezza:
se lo Stato ha bisogno della paura per potersi legittimare, si deve
allora produrre il terrore o, quanto meno, non impedire che si produca.
Vediamo così degli Stati perseguire una politica estera che alimenta
quello stesso terrorismo che devono poi combattere all’interno e
intrattenere relazioni cordiali, se non addirittura vendere armi a Paesi
che risultano finanziare le organizzazioni terroristiche.
Un
secondo punto che è importante definire è il cambiamento nello statuto
politico dei cittadini e del popolo, che era un tempo il depositario
della sovranità. Nello Stato di sicurezza si assiste a una tendenza
inarrestabile verso una depoliticizzazione progressiva dei cittadini, la
cui partecipazione alla vita politica si riduce ai sondaggi elettorali.
Questa tendenza è tanto più inquietante, in quanto era stata teorizzata
dai giuristi nazisti, che definivano il popolo come un elemento
essenzialmente impolitico cui lo Stato doveva garantire protezione e
crescita. Secondo questi giuristi, c’è solo un modo per politicizzare
questo elemento impolitico: attraverso l’uguaglianza di stirpe e di
razza, che deve distinguerlo dallo straniero e dal nemico. Non si tratta
qui di confondere lo Stato nazista con lo Stato di sicurezza
contemporaneo: bisogna però capire che se si depoliticizzano i
cittadini, questi potranno uscire dalla loro passività solo se li si
mobilita attraverso la paura di un nemico straniero non solo esterno
(gli ebrei per la Germania nazista, i musulmani nella Francia di oggi). È
in questo contesto che bisogna inquadrare il sinistro progetto di
revoca della cittadinanza a coloro che posseggono una doppia
nazionalità, che ricorda la legge fascista del 1926 sulla
denazionalizzazione dei «cittadini indegni della cittadinanza italiana» e
le leggi naziste sulla denazionalizzazione degli ebrei.
Un terzo
punto di cui è bene non sottovalutare l’importanza, è la trasformazione
radicale dei criteri che stabiliscono la verità e la certezza nella
sfera pubblica. Ciò che più colpisce l’osservatore attento ai comunicati
ufficiali sui crimini terroristici, è la totale rinuncia alla ricerca
della verità giudiziaria. Mentre in uno Stato di diritto un reato deve
essere accertato da un’inchiesta giudiziaria, nel paradigma securitario
ci si deve accontentare dei comunicati della polizia e dei media che da
questa dipendono, due istanze da sempre considerate poco affidabili. Da
qui l’incredibile vaghezza e le palesi contraddizioni nelle
ricostruzioni affrettate dei fatti, che scientemente eludono ogni
possibilità di verifica e assomigliano più a pettegolezzi che a
inchieste. Ciò significa che lo Stato di sicurezza ha interesse a che i
cittadini – di cui deve garantire la protezione - restino
nell’incertezza quanto a ciò che li minaccia, poiché incertezza e
terrore vanno sempre a braccetto.
Questa stessa incertezza si
ritrova nel testo di legge dello scorso 20 novembre sullo stato
d’emergenza, che interessa «ogni persona verso cui esistono seri motivi
di pensare che il suo comportamento costituisca una minaccia per
l’ordine pubblico e per la sicurezza». È del tutto evidente che la
formula “seri motivi di pensare” non ha alcun senso giuridico e, in
quanto rimanda solo all’arbitrio di chi pensa, può essere applicata in
qualunque momento a qualsiasi persona. Nello Stato di sicurezza, queste
formule indeterminate, da sempre considerate dai giuristi contrarie al
principio della certezza del diritto, diventano la norma.
Questa
stessa imprecisione e questi stessi equivoci li ritroviamo nelle
dichiarazioni dei politici secondo i quali la Francia sarebbe in guerra
contro il terrorismo. Una guerra contro il terrorismo è una
contraddizione di termini, giacché uno stato di guerra si definisce
precisamente attraverso la possibilità d’identificare con certezza il
nemico che s’intende combattere. Nella prospettiva securitaria invece,
il nemico deve restare nel vago, affinché chiunque - all’interno come
all’esterno - possa essere identificato come tale.
Mantenimento
d’uno stato di paura generalizzato, depoliticizzazione dei cittadini,
rinuncia a ogni certezza del diritto: ecco tre caratteristiche dello
Stato di sicurezza non certo rassicuranti. Ciò significa, infatti, che
lo Stato di sicurezza nel quale stiamo scivolando fa il contrario di
quanto promette, poiché - se sicurezza significa assenza di
preoccupazioni (sine cura) - al contrario esso alimenta la paura e il
terrore. Lo Stato di sicurezza è, d’altra parte, uno Stato di polizia,
poiché, escludendo il potere giudiziario, generalizza il margine
discrezionale della polizia che, in uno stato di emergenza divenuto
norma, agisce sempre più come sovrana. Grazie, infine, alla
depoliticizzazione del cittadino, diventato in qualche modo un
terrorista in potenza, lo Stato di sicurezza esce dall’ambito della
politica che conosciamo in direzione di una zona incerta, dove pubblico e
privato si confondono e di cui è difficile tracciare i confini.
(Traduzione di Riccardo Antoniani)
Apparso su Le Monde 27/12/15 sulla tribuna
Bisogna costituzionalizzare lo Stato d’emergenza?