domenica 24 gennaio 2016

Il Sole Domenica 24.1.16
Carl Schmitt (1888-1985)
Il giurista dell’eccezione
di Gabriele Pedullà

Quattro nuovi libri di Carl Schmitt in sei mesi: i numeri parlano da soli. Di fronte a questa messe di pubblicazioni il primo pensiero è che non si tratti soltanto del doveroso recupero di un geniale pensatore troppo a lungo emarginato per la sua compromissione con il nazionalsocialismo. Deve esserci qualcos’altro. E alcuni dei curatori dei volumi in questione lo rivendicano esplicitamente: Carl Schmitt non sarebbe mai stato così attuale come oggi.
Se l’insistenza sulle capacità profetiche del giurista tedesco suona a volte un poco stucchevole, è innegabile che alcuni dei concetti coniati o abbozzati da Schmitt appaiono cruciali per spiegare l’ordine, o meglio il disordine, internazionale affermatosi con la caduta dell’Unione Sovietica e manifestatosi per la prima volta esplicitamente con l’attentato alle Torri Gemelle. Sin dagli anni Quaranta Schmitt aveva denunciato infatti il pericolo di un mondo globalizzato e dominato dalla tecnica, uniformato dal primato del Capitale sulla politica all’ombra di una sola grande potenza, segnato dalla sostituzione delle vecchie guerre tra Stati con operazioni di polizia internazionale indirizzate contro i tentativi di resistenza alla omologazione ma allo stesso tempo esposto agli attacchi “dall’interno” di un partigiano-terrorista quale inevitabile correlativo dialettico della scomparsa delle vecchie distinzioni culturali e politiche. Questo sarebbe il segno della definitiva vittoria del mare (principio di mobilità incarnato da Inghilterra e Stati Uniti) sulla vecchia tradizione giuridica continentale.
Non è strano che queste categorie esercitino oggi tanto fascino. L’opera di Schmitt richiede tuttavia che il lettore impari a pensare, allo stesso tempo, con lui e contro di lui. Ciò è particolarmente chiaro quando si esce dalla lettura di Stato, grande spazio, nomos (Adelphi). Il quadro generale rimane quello degli scritti più noti: l’alternativa mostruosa tra il potere post-politico della tecnica globale e il terrorista “costretto” alle violenze più inaudite dalla natura asimmetrica del conflitto e dalla fine di ogni mutuo riconoscimento tra belligeranti. Eppure il volume curato da Giovanni Gurisatti, presentando alcuni testi meno noti composti durante la guerra, ci aiuta a vedere quello che dai libri maggiori non appare altrettanto chiaro: agli occhi di Schmitt una via d’uscita ci sarebbe, anche se dopo il 1945 evita di menzionarla in maniera esplicita. E questa via d’uscita è la riorganizzazione multipolare del mondo in un sistema di imperi con le loro rispettive aree di influenza – imperi capaci di riprodurre su scala planetaria l’ordine conflittuale con cui, in età moderna, gli Stati europei erano riusciti a mettere la guerra «in forma» e a contenere gli scontri.
Curiosamente, nello stesso momento in cui Heidegger viene chiamato a rispondere di un odioso antisemitismo, il fatto che Schmitt abbia elaborato la propria teoria dei «grandi spazi» per sostenere in punta di diritto le ambizioni espansioniste di Hitler non sembra preoccupare troppo i lettori di oggi (sebbene Schmitt si spinga a sostenere una precisa relazione tra «ordine marino» ed ebraismo). Di fronte a quelli che non sono banali incidenti di percorso, non si tratta, naturalmente, di bandire un’altra volta i suoi scritti, ma sarebbe almeno giusto che gli schmittiani di destra e di sinistra prendessero consapevolezza che insistere tanto sulle sue presunte capacità profetiche implica di necessità anche un giudizio favorevole sulla tesi centrale degli anni di guerra: vale a dire sulla idea che, se la Germania non avesse vinto, il mondo sarebbe caduto nel baratro della coppia globalizzazione-terrore.
Per pensare con e contro Carl Schmitt allo stesso tempo è necessario però ricostruire genealogicamente le sue tesi. Decisiva risulta soprattutto la loro radice hegeliana e in particolare l’interpretazione della storia umana come perenne conflitto. Qui disponiamo di un’importante testimonianza: negli anni Cinquanta Schmitt intrattenne una densa corrispondenza a proposito della guerra nel pensiero di Hegel con il più originale hegeliano del tempo, il russo (francesizzato) Alexandre Kojève. Ma al di là delle loro lettere, è impressionante come Schmitt e Kojève – da hegeliani – fossero ossessionati dallo stesso problema della fine della Storia. Per Kojève essa significherà la scomparsa dell’uomo come “agente forte” e la sua trasformazione in consumatore o in snob: come minimo un Paradiso un po’ dubbio. Per Schmitt invece la fine della dialettica militare tra Stati è destinata a tramutarsi semplicemente in un incubo: non la scomparsa dei conflitti, ma la loro generalizzazione terroristica.
L’inarrestabile successo di Schmitt ha ovviamente a che fare con la nostra paura. La «grande narrazione» liberale del post-1989, La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama, aveva declinato la stessa trama di Kojève in termini più ottimistici e conciliati, perché l’approdo della lunga catena di tesi, antitesi e sintesi non sarebbe altro che il trionfo planetario della democrazia. Ma, come ha ben messo in luce Peter Sloterdjik (un altro hegeliano, ammiratore di Fukuyama), il mondo della post-Storia è una serra a forma di Sfera, e tutte le serre sono – come è noto – particolarmente vulnerabili. Schmitt oggi ci sembra così attuale proprio perché nella sua critica della globalizzazione americana ribalta l’ingenuo entusiasmo degli anni Novanta e mostra i lati oscuri della fine della guerra fredda.
L’alternativa al mondo americano sarebbe dunque il rifiuto della globalizzazione e la chiusura in nuovi confini? L’Europa, dopo tutto, ha le dimensioni giuste per costituirsi in «grande spazio», secondo le ambizioni dello Schmitt degli anni di guerra… Ed ecco allora che il consenso istintivo che le tesi del giurista di Hitler ricevono oggi tanto a destra quanto a sinistra ci dice qualcosa di decisivo di un tempo in cui le tentazioni identitarie di ieri ricevono crescenti legittimazioni, al punto che diventa sempre più difficile distinguere le battaglie dei socialisti per «l’eccezione culturale francese» dagli slogan (pseudo)repubblicani di Marine Le Pen.
Per Schmitt, rappresentare lo scontro finale prima dell’Apocalisse come la lotta tra la diversità delle tradizioni e un’anonima forza sovvertitrice dell’ordine terreno non era naturalmente un’opzione neutra, ma serviva a difendere le ragioni di un preciso ordine mondiale alternativo a quello americano: quello del Terzo Reich. Troppo facilmente i suoi esegeti di oggi tendono a dimenticarlo, quando invece occorrerebbe far saltare l’antitesi tra difesa identitaria e globalizzazione spoliticizzante. I contemporanei di Schmitt invece lo sapevano bene, e saggiamente rifiutavano di giocare la partita all’interno delle sue categorie. Ma in questo – occorre dirlo – erano enormemente favoriti dalla esistenza di un movimento socialista che rivendicava una propria ipoteca sul futuro, in alternativa tanto ai miti nazionalisti della terra e del sangue quanto all’«American way of life». Perché, in fondo, la sorprendente remissività di oggi verso le analisi di Schmitt (o, sul versante opposto, di Fukuyama e Sloterdjik) è anche il risultato dell’enorme vuoto politico che si è aperto ormai più di venti anni or sono.Carl Schmitt, Stato, grande spazio, nomos , a cura di Gunter Maschke,
Ed. it. a cura di Giovanni Gurisatti, Adelphi, Milano, pagg. 528, € 60,00