Il Sole Domenica 24.1.16
Politica e filantropia
Aristotele contro Bill Gates
di Ermanno Bencivenga
Nel
quarto libro dell’Etica nicomachea, Aristotele tratta due virtù
relative all’uso dei beni che possono essere scambiati l’uno con
l’altro, quindi anche comprati e venduti, misurati con il denaro. Una è
la generosità, che compete a persone con mezzi finanziari modesti;
l’altra, riservata a quanti abbiano invece risorse ingenti, è la
munificenza. Quest’ultima si applica a circostanze eccezionali nella
vita privata di una persona (un matrimonio, per esempio) ma è
soprattutto pertinente a spese di carattere pubblico: una cerimonia
religiosa, una festa popolare, l’ospitalità offerta a dignitari in
visita da città straniere.
Se dovessimo dare esempi aggiornati di
munificenza, il più ovvio sarebbe quello di miliardari come Bill Gates,
che investono dosi massicce del loro patrimonio in azioni pubbliche come
la lotta alle malattie, la scolarizzazione dei bambini e il tentativo
di alleviare, forse anche eliminare, la fame nei paesi più infelici
dell’Africa e dell’Asia. Gates, in particolare, è in proposito un vero
titano, al punto che, sostiene David Rieff in The Reproach of Hunger, di
lui si può dire che nella sua vita abbia stabilito non uno ma due
monopoli mondiali: il primo con Microsoft e il secondo nel campo degli
aiuti internazionali.
Secondo Rieff, è impossibile sopravvalutare
il peso delle opinioni e decisioni di Gates in questo campo, il che non
sorprende quando si consideri che la fondazione che porta il nome suo e
di sua moglie Melinda ha ricevuto da lui oltre 28 miliardi di dollari
fra il 2000 e il 2013, da aggiungere ai 15 miliardi che vi ha versato
Warren Buffett, come anticipo sulla promessa di lasciarvi in eredità la
massima parte della sua fortuna. Né è possibile, apparentemente,
sottovalutare la qualità delle sue opinioni e decisioni, motivate come
sono da un’assoluta fiducia nella scienza, nei dati e nella buona
volontà comune di risolvere i più gravi problemi dell’umanità. Rieff,
però, non è d’accordo; per capire perché, è opportuno tornare ad
Aristotele.
Nel libro ottavo della stessa Etica, ci viene offerta
una tassonomia di tre sistemi di governo e tre loro degenerazioni. Il
miglior sistema è quello monarchico, in cui un re virtuoso amministra lo
stato per il bene dei suoi sudditi. Fra le degenerazioni, la meno
peggio è la democrazia; la peggiore è la tirannia, il governo di un
singolo furfante. Insomma, se vivessimo fra esseri umani retti e onesti,
il meglio che potremmo fare sarebbe affidarci al migliore di loro; in
caso contrario, è meglio che il potere sia diviso fra tutti e tutti
esercitino controllo sugli altri. L’idea della desiderabilità di un
controllo reciproco si affermò ulteriormente nella dottrina, proposta da
Polibio e Cicerone, che il sistema di governo migliore fosse misto,
partecipe insieme del governo di uno, di pochi e di molti, e più avanti
nella divisione fra poteri teorizzata da Montesquieu.
Il
fondamento politico e giuridico di tutti gli stati (occidentali) moderni
si trova in questi autori; ma in tempi recenti l’equilibrio da loro
auspicato sembra tutt’altro che florido. Da un lato avanza la democrazia
diretta, quella che parla alla «pancia» del popolo e si nutre di
sondaggi; dall’altro, coerentemente con la convinzione platonica che la
democrazia così concepita è l’anticamera della tirannia, si affermano
miti di un uomo solo al comando, di un risoluto decisionista. E, nei
confronti dell’una e dell’altra tendenza, riemergono antichi dubbi.
Rieff
esprime tali dubbi quando commenta: «Si può riconoscere che ci siano
stati buoni zar senza ammettere che la monarchia sia un sistema
moralmente accettabile di governo». L’errore, insomma, nell’attuale
«sistema» di aiuti internazionali, è l’eccessiva autorità e sostanziale
mancanza di controlli accordata a pochi operatori, legati come Gates a
potenti multinazionali o identici alle stesse multinazionali (Coca-Cola,
Monsanto, Walmart) impegnate in uno sforzo pubblicitario per
ricostruire la propria reputazione dopo qualche marachella. Questa
suprema libertà di movimento non manca di causare effetti perversi: per
dirne una, nel 2012 la Fondazione Gates ha donato 2,6 miliardi di
dollari in aiuti mentre Microsoft evitava tasse per 4,6 miliardi di
dollari. Se le multinazionali pagassero le tasse là dove realizzano i
profitti, forse i governi africani e asiatici potrebbero aiutarsi da
soli: secondo una relazione del Parlamento Europeo del 2013, Google ha
pagato in tasse il 2,4% dei suoi utili realizzati fuori dagli Stati
Uniti e Apple il 2%. Anche se simili storture non ci fossero, però,
insiste Rieff, è irragionevole e ingiusto abbandonare il proprio destino
alla (eventuale) benevolenza di pochi nababbi: la soluzione del
problema della fame nel mondo richiede un’azione non solo tecnica ma
anche politica. Dove per «politica» chiaramente s’intende
l’interminabile negoziato fra poteri diversi che Polibio, Cicerone,
Montesquieu e tanti altri ci hanno indicato come l’unica strada
plausibile, una volta svanito il sogno di un dittatore illuminato.
David
Rieff, The Reproach of Hunger: Food, Justice, and Money in the
Twenty-First Century , Simon & Schuster, New York, pagg. 402,
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