Il Sole Domenica 24.1.16
Logica e democrazia
Pensieri basati sui fatti
Se non è empirica la filosofia rischia di essere vaga. A scuola bisogna insistere sulla capacità di argomentare
di Gilberto Corbellini
I
filosofi stanno discutendo abbastanza su cosa significhi oggi fare
filosofia. È vero che chi scrive si identifica in una posizione
scientista, per cui tutto quel che esiste ed è conoscibile è accessibile
alla scienza e ai suoi metodi. Penso, in sostanza, che non esista in
linea di principio niente di quel che accade che non possa essere
compreso usando procedure empiriche controllate, se le nostre strutture
cognitive riescono a concettualizzare e a interrogare sperimentalmente i
processi che lo producono. Questa è l’unica posizione filosofica per me
ragionevole. Tutto il resto, come diceva Francis Crick, equivale a
fischiare nel buio per farsi coraggio. Non penso però che la filosofia
non serva a niente. Anzi. Oltre a produrre, insieme alla religione o
alla letteratura o all’arte, suoni rassicuranti per chi ha paura del
buio, può far capire meglio come funziona la scienza, togliendo di torno
illusioni e autoinganni che ostacolano una comprensione critica e una
disponibilità psicologica verso le conoscenze più affidabili che
produciamo, cioè quelle scientifiche.
Un aiuto prima di tutto per i
giovani, che invece di perdere tempo sul pensiero di tanti filosofi che
hanno detto cose sbagliate, potrebbero acquisire salutari elementi di
storia della scienza e di epistemologia scientifica, senza i quali non
si capisce il mondo nel quale viviamo. Davvero non si capisce, non è
retorica! Le false credenze e le diffidenze verso la scienza e il metodo
scientifico, così diffuse in Italia, sono la conseguenza anche del
fatto che non sono chiari gli obiettivi dell’insegnamento scolastico: se
non si aiutano i giovani a correggere l’epistemologia ingenua con cui
approcciano la realtà, non distingueranno da adulti la scienza dalla
pseudoscienza.
Oggigiorno non si può essere cittadini pienamente
in grado di esercitare i diritti costituzionali se, per esempio, non si
sa cosa è una probabilità, quali componenti teoriche entrano nella
definizione di rischio, come si stabilisce che un dato scientifico è
corretto o non falsificato, come funziona una sperimentazione clinica,
cosa sono i bias cognitivi ed emotivi, etc. Il fatto tragico è che
questi concetti sono estranei in primo luogo a chi è impegnato a fare
leggi, ad applicarle o ad amministrare la giustizia. L’esperienza più
shoccante che si prova consultando le legislazioni anglosassoni è la
chiarezza e l’organizzazione logica delle argomentazioni. Raramente sono
scritte in modi illogici, per confondere le idee o non far capire cosa
c’è scritto, come le leggi pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
Se
«siamo un paese che odia la scienza», come denunciava lunedì scorso
Paolo Mieli sul Corriere della Sera, è perché a cominciare dalla classe
politica e passando per quasi tutti gli intellettuali che fanno
tendenza, non si trova qualcuno che non storca il naso o non dica
inesattezze quando si usa o si propone di usare un metodo scientifico
per stabilire come stanno determinati fatti. Per esempio quando si
utilizzino i risultati della ricerca sperimentale per sostenere che
mentono coloro i quali dicono che i vaccini possono causare l’autismo e
sono più rischiosi della malattie che devono prevenire, che gli Ogm sono
sicuri per l’ambiente e la salute nonché un toccasana per
l’agricoltura, che le staminali mesenchimali non hanno curato alcuna
malattia, che Xylella è un vero patogeno e i suoi effetti possono essere
stabiliti e contrastati solo con metodi scientifici, etc. Non è
pensabile che un paese economicamente sviluppato possa rimanere tale e
possa allevare un élite politica e intellettuale in grado di renderlo
internazionalmente competitivo se non cambia radicalmente la qualità
della cultura scientifica. Un risultato che non si ottiene solo
incrementando la divulgazione o comunicazione della scienza, e tantomeno
trascinando la scienza in controversie politiche, filosofiche o
ideologiche. Va detto che se siamo a questo punto anche la comunità
scientifica e il mondo accademico hanno pesanti responsabilità, che non
sono soltanto l’attendismo, il servilismo e l’opportunismo che hanno
caratterizzato i rapporti con la politica sin dall’ultimo dopoguerra più
o meno.
C’è un problema culturale per cui non sono solo i
cittadini profani che avrebbero bisogno di imparare un po’ di filosofia.
Perché gli scienziati, che con disinvoltura riescono sempre più spesso a
scavarsi la fossa con le loro mani, scadono frequentemente nei più
triti luoghi comuni e gestiscono o furbescamente o ingenuamente le
interazioni con la politica o con la magistratura. Benché
l’apprendimento della scienza dovrebbe averli immunizzati dalle trappole
delle idee di senso comune e delle preferenze ideologiche, alla prima
occasione per dar spazio a qualche ambizione di potere o bisogno
narcisista si prestano a fare confusione e alimentare il pregiudizio che
“gli scienziati sono divisi”, quindi tanto vale ignorarli o usarli come
ci fa comodo. Gaston Bachelard diceva che la scienza del suo tempo non
aveva filosofi all’altezza del compito. Oggi si possono fare molti
esempi che gli scienziati non sono spesso all’altezza della scienza che
producono.
È triste leggere articoli di scienziati e accademie
scientifiche che s’arrampicano sugli specchi per sostenere che le più
recenti tecnologie del genome editing sono naturali o intrinsecamente
diverse da quelle con le quali si facevano gli ogm, insultando la logica
e l’epistemologia della biologia – è chiaro che non sanno nulla di
teoria evoluzionistica, altrimenti non farebbero ragionamenti per i
quali i giganti del pensiero genetico-evoluzionistico si rivoltano nella
tomba. Tutto per rincorrere l’ignoranza dei politici che chiedono loro
di abiurare ai principi etici della scienza – dire come stanno i fatti –
se vogliono usare queste nuove tecnologie. Ma solo in laboratorio, dice
l’improbabile ministro dell’agricoltura nostrano. Ecco qualche compito
utile per la filosofia. Rendersi conto che il sapere che vale amare è
quello scientifico, e quindi lavorare non solo per farlo entrare meglio
nella cultura civile, ma anche per proteggerlo dagli stessi scienziati.