domenica 24 gennaio 2016

Il Sole Domenica 24.1.16
Perché si chiude ai migranti?
di Alain Touraine

È difficile accogliere i migranti - anche se si tratta di rifugiati politici - protetti dal diritto d’asilo quando la popolazione che deve accoglierli si sente essa stessa minacciata dall’assenza di capacità d’azione del suo governo. Questo stallo è un problema altrettanto reale, anzi forse più frequente di quello dei Paesi disposti ad accettare i migranti ma trascinati dall’ossessione identitaria dei loro dirigenti verso una chiusura comunitaria destinata a rinforzare l’omogeneità, spesso più immaginaria che reale, della propria cultura e società.
La prima forma di chiusura, che dipende da una mancanza di fiducia in se stessi o, come nel caso della Francia, da una mancanza di stima per se stessi come nazione, è un effetto secondario di un’incapacità più generale di certe società di trovare una via d’uscita dalle loro difficoltà interne a a causa della loro fedeltà a una certa immagine di sé o a un’ideologia politica.
La scomparsa dei partiti comunisti non ha causato drammi maggiori perché è la scomparsa dell’Unione Sovietica, tra il 1989 e il 1991 che li ha liquidati. Ma l’agonia, o addirittura la morte, della social-democrazia è un fenomeno ben più importante e complesso, che crea un’enorme insicurezza. La decadenza è cominciata quando Tony Blair, primo ministro labour inglese, parlò di Terza Via (Third Way) che, come ci si accorse subito, in un mondo dominato dal capitalismo finanziario mondializzato, era molto più simile al capitalismo regnante che a qualsiasi forma di socialismo, ormai condannato dalla storia. Gerhard Schröder in Germania seguì l’esempio di Blair. Ma con una differenza importante: mentre l’Inghilterra si stava deindustrializzando e riorientando verso la gestione del sistema finanziario mondiale al pari degli Stati Uniti, con la city di Londra che diventava una piazza allo stesso livello di Wall Street, la Germania conservò intelligentemente il suo ruolo dominante nel commercio industriale, creando in un decennio - come l’Inghilterra - un gran numero di posti di lavoro precari e mal pagati nel settore industriale. In generale, tutti i grandi Paesi europei, in una forma o in un’altra, si sforzarono di riguadagnare competitività abbassando il costo del lavoro perché non potevano più - e non volevano più - agire sui benefici delle imprese. Il costo del lavoro è rimasto comunque più alto in Francia che negli altri grandi Paesi, cosa che spiega - insieme alla fecondità della popolazione, superiore alla media europea - la maggiore durata della disoccupazione e la deteriorazione della sua opinione pubblica.
Dappertutto nel mondo ciò che chiamavamo la sinistra è in decomposizione, mentre aumentano le disuguaglianze, in particolare negli Stati Uniti, e si rinforzano le tendenze autoritarie, in particolare in Cina. Esiste una grossa asimmetria tra le politiche cosiddette “di destra”, al servizio dei molto ricchi, e l’assenza di programma e di governo della sinistra francese. È vero che in Europa i tentativi di ricreare una sinistra radicale sono falliti. Anche in America Latina, dove il chavismo è in caduta libera, almeno di Venezuela.
È l’incapacità generale di creare nuovi modi di pensare ed agire che rappresentino le classi popolari e i loro interessi, anch’essi completamente trasformati dalla mondializzazione, che spiega l’impotenza, la perdita di influenza e soprattutto l’incapacità degli attori politici di mobilitare le categorie popolari.
Questa situazione non è eccezionale storicamente: è anzi la più probabile quando un campo territoriale di decisioni che un governo deve prendere si allarga. Fu così nel XIX secolo con la creazione di nuovi stati nazionali, tra i quali in primo piano l’Italia e la Germania. Oggi la mondializzazione mette in contatto popolazioni differenti con culture opposte sotto molti aspetti.
Molto semplicemente, come potrebbero oggi formarsi nuovi partiti di sinistra, dato che i sindacati regrediscono ovunque e la partecipazione politica diminuisce?
Questo cambiamento di atmosfera ha conseguenze meno gravi per la destra, che è guidata soprattutto dagli interessi, che per la sinistra, le cui rivendicazioni sono costruzioni sociali, culturali e ideologiche.
Vedo tre espressioni molto visibili della crisi che descrivo. Una è la perdita di fiducia delle popolazioni nei loro dirigenti politici che sono accusati di essere tutti corrotti.
La seconda è il chiaro indebolimento della gestione pubblica anche nei Paesi europei dove questa gestione era buona o addirittura eccellente. Il caso dell’America latina è impressionante. I Brasiliani, che contrastavano da più di mezzo secolo la buona gestione del loro gruppo pubblico Petrobras rispetto alla corruzione endemica del concorrente messicano privato Pemex, si trovano ora coinvolti in tutti i tipi di scandali di corruzione. I messicani dal lato loro, ritengono di non potere più combattere il banditismo e i trafficanti di droga perché il vizio e la corruzione non sono più diretti contro lo Stato ma sono nello Stato stesso, penetrato da tutte le parti, in particolare a livello locale e regionale.
E come si potrebbe non essere preoccupati dal numero di miliardari che produce la Russia che non ha praticamente più nessuna produzione industriale e scientifica avanzata? Infine, gli Europei fanno molta difficoltà a seguire la campagna presidenziale del partito repubblicano americano, dominato dalle dichiarazioni incendiarie e irresponsabili di Donald Trump, la cui ricchezza poteva almeno far sperare in un po’ di buon senso strategico.
Il trionfo oggi inevitabile della mondializzazione produce facilmente nazionalismi comunitarismi autoritari, e invece fa fatica a produrre nuove idee di sinistra. C’è bisogno di molto tempo e di stabilità economica internazionale perché si costituiscano, dal lato dei più deboli, ossia i migranti, delle nuove dichiarazioni, e più difficilmente ancora dei progetti, delle strategie e soprattutto, delle nuove forze di mobilitazione.
Questo squilibrio, questo ritardo politico delle sinistre, è la causa principale del rifiuto della gente di gestire le differenze, soprattutto se non si tratta solo di differenze economiche, ma anche culturali.
Traduzione di Gloria Origgi