domenica 24 gennaio 2016

Il Sole 24.1.16
Lo sguardo corto sui rifugiati
di Carlo Bastasin

È il difetto di una democrazia stanca e rituale pensare che i problemi diventino politici solo se influenzano la scelta elettorale più vicina.
Nel cercare soluzioni al problema dell’immigrazione, il nostro sguardo si ferma sempre troppo presto: alle elezioni locali di primavera in Germania e in Italia o a quelle generali che nel 2017 decideranno le sorti di Merkel e Hollande.
Questa miopia politica indebolisce anche la strategia europea dell’Italia.
È possibile tenerne conto prima dei prossimi decisivi incontri di Matteo Renzi con la cancelliera Merkel e con il presidente Juncker. In realtà, non troveremo alcuna soluzione se non allunghiamo lo sguardo. Nel 2050 la sola Nigeria avrà più abitanti degli Stati Uniti o dell’Euro-area. Nel 2100 ci saranno più etiopi che europei. La popolazione africana supererà i 4 miliardi, mille volte il numero dei siriani che hanno abbandonato la loro casa durante la guerra. Mille volte cioè la quantità di profughi che già ora ci fa cedere all’istinto di rialzare i muri e revocare gli accordi di libera circolazione.
I quattro milioni di siriani sono certamente un’entità rilevante, tre volte superiore ai profughi delle guerre balcaniche negli anni Novanta o a quelli dell’Indocina nei due decenni precedenti. Rappresentano un esodo anche paragonati ai 15 milioni della seconda guerra mondiale. Ma attualmente le Nazioni Unite stimano che la grande maggioranza dei 59 milioni di rifugiati nel mondo aspiri a tornare nel paese di origine. Dal punto di vista morale, politico ed economico non è corretto tenere problemi di tale dimensione umana in ostaggio di un lancio di dadi tra stati nazionali, cioè di scontri ispirati da interessi elettorali che arrivano al massimo a scandagliare pochi mesi a venire.
È per esempio un’ipotesi pericolosa quella tedesca di ristabilire la cortina di ferro ai confini meridionali della Slovenia. Forse si tamponerà l’immigrazione per qualche mese, allentando le minacce politiche alla cancelliera, ma milioni di profughi finirebbero imbottigliati tra Grecia e Croazia, in un territorio instabile, mal governato, o reduce da guerre recenti a sfondo etnico e religioso. È anche irragionevole da parte di Roma non schierarsi con Bruxelles nel rilanciare una politica estera e di difesa comune che vedrebbe al vertice istituzionale proprio una protagonista italiana. È indispensabile inoltre cercare una soluzione alle sofferenze dei profughi al vertice di Londra del 4 febbraio, sviluppando le zone protette in Libano e Turchia.
Ma bisogna andare oltre tutto ciò. Gli europei devono impostare una strategia di respiro secolare per Africa e Vicino Oriente al vertice Onu di settembre, approfittando finché è ancora possibile del dialogo col presidente Obama. Nessun governo europeo è in grado di agire da solo di fronte a tali sfide e ciò rende miserevoli le questioni che occupano l’agenda politica degli Stati nazionali. Risibile la campagna per il Brexit; patetica la reticenza di Parigi e Berlino nel coordinarsi; scandalosa la retorica nazionalista di Ungheria e Polonia.
Ma non è morale nemmeno barattare la collaborazione sui temi dell’immigrazione con le concessioni su un po’ di spesa pubblica in più, come sta facendo Roma. Anche questa è una conseguenza del dominio degli interessi elettorali di breve termine. La bassa crescita italiana, da vent’anni molto inferiore alla media europea, è dovuta per quattro quinti alla minore produttività totale dei fattori, non alla minore spesa pubblica. Puntare sulla “flessibilità permanente” del bilancio significa aggirare il compito di rivedere la funzione di produzione del paese, l’efficiente combinazione di capitale e lavoro attraverso innovazioni. Significa cioè evitare di cambiare ciò che non funziona: il sistema della giustizia, i mercati del lavoro e dei prodotti, i criteri del credito e tutti gli istituti che presiedono alla formazione del capitale umano. Anche qui il problema è lo stesso: cambiare il paese richiede un impegno di lungo respiro mentre la politica è concentrata sulle brevi scadenze.
Uno studio pubblicato da SEP (Luiss) mostra come la strategia italiana di puntare sulla flessibilità fiscale ostacoli ogni progresso nelle politiche europee di condivisione dei rischi. Impedisce che gli altri paesi concordino su forme di mutualizzazione, tra cui l’assicurazione dei depositi bancari e il fondo di risoluzione comune, che sarebbero vitali per un paese ad alto debito come l’Italia.
In questo senso, strategia per l’immigrazione e politica economica sono davvero legate. Non perché possano essere una la contropartita dell’altra – concessioni alla Germania sull’immigrazione contro maggiore flessibilità fiscale per l’Italia -, bensì perché entrambe contrappongono scelte nazionali a scelte condivise. I prossimi incontri di Renzi con Merkel e Juncker sono l’occasione per mettere a fuoco una comune strategia di condivisione dei rischi.