Il Sole Domenica 17.1.16
Due neuroni per uno zero
Una
nuova scoperta mostra cosa succede nel cervello quando percepiamo
l’insieme vuoto: è visto sia come un numero tra gli altri numeri posti
in una scala sia come uno scarto tra nulla ed esistenza di qualcosa
di Giorgio Vallortigara
Provate
a chiedere a un bambino di quattro, cinque anni, quando già sa recitare
impeccabilmente la sequenza dei numeri naturali, «zero, uno, due,
tre…», quale sia il numero più piccolo: molto probabilmente vi
risponderà che è l'uno e non lo zero. C’è una fase dello sviluppo
cognitivo in cui l’uso del simbolo «zero» per indicare l’assenza di
qualcosa non è ancora accompagnato da una piena comprensione delle
relazioni d’ordine tra lo zero e gli altri numeri. Lo sviluppo storico
del pensiero matematico sembra ricapitolare queste difficoltà.
L’introduzione di una notazione simbolica per lo zero è relativamente
recente. L’impiego dello zero come un vero numero, manipolabile
aritmeticamente, compare, in India, tra il terzo e il sesto secolo (i
Babilonesi usavano lo zero solo con funzione di segnaposto, e lo stesso
pare abbiano fatto i Maya e gli antichi Cinesi).
In questi ultimi
anni, però, abbiamo imparato che creature del tutto prive di un simbolo
per lo zero, come gli animali delle altre specie o i bambini più
piccoli, possono nondimeno cogliere l’idea di un insieme vuoto e
rappresentarselo come un’autentica entità numerica. Per farlo impiegano
quello che gli scienziati definiscono «sistema approssimato del numero»
o, in termini più colloquiali, «senso del numero».
Il segno
distintivo del senso del numero è l’«effetto distanza». Si fa prima e si
commettono meno errori a decidere, per esempio, se sia più grande
«otto» o «diciotto», che non «otto» e «dodici». La prestazione è cioè
tanto migliore quanto più i due numeri sono distanti. Lo stesso accade
se anziché usare simboli come i numeri arabi si mostrano sullo schermo
di un computer degli insiemi di pallini di differenti numerosità. E’
notevole che nei due casi succeda la stessa cosa. Con i simboli,
infatti, molti aspetti diversi potrebbero causare confusione: ad
esempio, il fatto che i simboli si assomiglino fisicamente («otto» e
«diciotto» hanno l’«otto» in comune, che invece «otto» e «dodici» non
hanno) oppure che si assomiglino i suoni che produciamo per pronunciarli
(i suoni per «otto» e «diciotto» si somigliano di più dei suoni per
«otto» e «dodici»). Eppure tutto ciò non importa: è come se, per
eseguire il confronto, i suoni o i segni dei simboli fossero convertiti
automaticamente nel cervello nei valori delle rispettive quantità.
Il
senso del numero è ubiquo nel mondo animale, si ritrova nei pesci e
negli uccelli, nei mammiferi e negli anfibi, forse perfino negli insetti
come le api, e supporta una matematica approssimata che consente di
effettuare le operazioni aritmetiche (somme, sottrazioni, divisioni).
Adesso
immaginate un semplice esperimento nel quale si debbano ordinare delle
quantità non simboliche, come appunto dei pallini sullo schermo di un
computer. Compaiono sullo schermo, poniamo, un insieme di otto pallini e
uno di dodici pallini; poi uno di otto e uno di diciotto… e così via.
Ogni volta la consegna è di ordinare le due quantità, pigiando su un
touch screen prima il numero più piccolo e poi quello più grande. è un
compito che può imparare facilmente un bambino di età prescolare, ma
anche una scimmia. Che accade se, quando l’apprendimento è ormai ben
consolidato, sullo schermo vengono presentate delle coppie nelle quali
uno dei due insiemi di pallini è pari a «zero» (cioè costituito di
nessun pallino)? I bambini, ma anche le scimmie, rispondono
correttamente: prima pigiano in corrispondenza dell’insieme vuoto e poi
del numero (lo fanno anche quei bambini che quando sono interrogati
verbalmente su quale sia il numero più piccolo nella serie dei numeri
rispondono che è l’uno anziché lo zero). E siamo certi che questa
dell’insieme vuoto sia davvero una rappresentazione numerica, perché
anche qui fa la sua apparizione la firma caratteristica del senso del
numero: l’effetto distanza. Si fa prima a dire che zero pallini è più
piccolo di dodici pallini che non a dire che zero pallini è più piccolo
di quattro pallini (e non c’entra quanta area occupano i pallini, perché
l’effetto della distanza si osserva anche quando quattro pallini grandi
occupano un’area maggiore di quella occupata da dodici pallini
piccoli). Ma a cosa corrisponde, nel cervello, questa rappresentazione
primitiva dell’insieme vuoto, dello zero pre-simbolico?
Già si
sapeva che in una porzione posteriore del lobo parietale nella scimmia
(e, con ogni probabilità, anche nella specie umana) ci sono neuroni la
cui frequenza di scarica è modulata dalla numerosità. Ad esempio, ci
sono neuroni che hanno un picco massimo di risposta quando l’animale
vede cinque pallini o cinque quadratini o sente cinque suoni… insomma
quando percepisce la «cinquità» di un insieme di elementi. La codifica
della numerosità è continua e non discreta, così come ci si aspetta dal
senso del numero: il neurone che risponde a «cinque» in maniera ottimale
risponde un po’ meno al «sei» e al «quattro», ancor meno al «sette» e
al «tre» e così via. Ora però Okuyama e colleghi dell’Università Tohoku,
in Giappone, hanno osservato che vi sarebbero due diversi tipi di
neuroni per lo zero, neuroni a risposta «continua» che, come per le
altre numerosità, hanno un massimo di frequenza di scarica per l’insieme
vuoto (nessun pallino) e frequenze via via digradanti per le altre
numerosità (un po’ di risposta a un pallino, un po’ meno a due pallini… e
così via) e neuroni a risposta «esclusiva» che invece aumentano la
frequenza di scarica solo quando c’è lo zero (l’assenza di pallini) e
non presentano alcuna variazione di risposta per qualsiasi altra
numerosità (un pallino, due pallini…).
Lo zero sta per il nulla,
l’assenza anziché la presenza e, forse, possiede per questa ragione una
rappresentazione neurale un poco speciale. Se poi il nulla sia qualcosa o
non lo sia è un problema sul quale molto si sono affaticati i logici e
filosofi medievali, e che non considereremo qui. Invece vale la pena
notare che tra nulla e qualcosa, tra esistenza e non esistenza, potrebbe
sussistere un’asimmetria cognitiva. Alcuni esperimenti della psicologa
cognitiva Karen Wynn hanno mostrato che infanti di otto mesi che vedono
un oggetto occultato da uno schermo si meravigliano assai quando
all’abbassarsi dello schermo l’oggetto appare essere scomparso. Gli
infanti, cioè, ritengono che anche se non lo vedono più, l’oggetto
continui ad esistere dietro lo schermo. Tuttavia quel che vale per
l’assenza non sembra esser vero per la presenza. Se vedono che un
oggetto è stato sottratto da dietro uno schermo che l’occultava, non si
meravigliano poi di vederlo «magicamente» ricomparire quando lo schermo
viene abbassato. Difficile asserire se per loro sia un nuovo oggetto, un
sosia, o lo stesso oggetto.
Su Tlön, il pianeta immaginato da
Borges in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (http://24o.it/pPjzyY), le cui
nazioni «sono - in maniera congenita - idealiste» non è infrequente la
duplicazione degli oggetti perduti: «Due persone cercano una matita, la
prima la trova e non dice nulla; la seconda trova una seconda matita,
non meno reale, ma più conforme alle sue aspettative». Sul nostro
pianeta, invece, fino a una certa età, la rappresentazione della
presenza di un oggetto sembra slegata da quella della sua assenza: gli
oggetti non possono magicamente scomparire, ma possono magicamente
apparire. Forse i neuroni che segnalano lo zero come entità continua si
sviluppano prima o in modo distinto da quelli che segnalano l’assenza in
modo discreto. Così quando vi sono elementi da contare i bambini
intuiscono che zero è un numero: il valore minimo nel continuo
rappresentato dal sistema analogico del senso del numero. Ma se non c’è
una quantità contabile, allora resta solo la rappresentazione del
subitaneo assurgere all’esistenza di un «qualcosa» o, forse, tramite i
neuroni a risposta discreta, di quel qualcosa la vertiginosa assenza.
Okuyama,
S. et al. Representation of the numerosity «zero» in the parietal
cortex of the monkey , Scientific Reports, 5, 10059; doi:
10.1038/srep10059