Il Sole Domenica 17.1.16
Conflitti di civiltà
America e Islam, la storia si ripete
di Ermanno Bencivenga
Un
gruppo di americani si avventura in Medio Oriente per debellare la
superstizione, il fanatismo e la violenza diffusi dalla religione
islamica e portarvi libertà, umanità e ragionevolezza; ma scopre, con
sua grande sorpresa, che i fortunati fruitori di questa colonizzazione
sono restii a rinnegare la propria fede e i propri costumi. Dopo qualche
anno di tentativi infruttuosi, muoiono o abbandonano l’impresa. Dove
collochereste, temporalmente, un simile episodio? Ma è ovvio: ai giorni
nostri, all’indomani del «secolo americano» (il Novecento) che ha visto
imporsi l’egemonia globale degli Stati Uniti e del gran botto che ha
aperto il nuovo secolo e minacciato quell’egemonia, provocando ogni
sorta di interventi civilizzatori e conseguenti ingloriose ritirate.
Giusto? Sbagliato.
L’avventura di cui sto parlando si svolse due
secoli fa, negli anni venti dell’Ottocento, quando gli Stati Uniti non
avevano mezzo secolo di vita e si estendevano per circa un quarto delle
loro dimensioni attuali. I suoi protagonisti non sono politici
illuminati o vittoriosi generali; sono invece missionari evangelici, e
non sono convinti che i popoli «liberati» getteranno fiori sui loro
cannoni ma, in termini meno bellicosi, che una religione primitiva e
grossolana si scioglierà come neve al sole davanti alla suprema lucidità
e saggezza della propria. Il tutto con una base chiaramente
riconoscibile come americana: organizzazione capillare di reperimento
dei fondi necessari; propaganda a tappeto sui mezzi di comunicazione
(giornali, soprattutto), con notizie vere o false a seconda dei casi, ma
sempre clamorose; fiducia incrollabile nel successo dell’operazione.
A
raccontarci questa vicenda, desumendola con cura da documenti originali
venuti da poco alla luce, è Christine Leigh Heyrman, professore di
storia americana all’Università del Delaware e autrice di American
Apostles, un libro che dimostra, una volta di più, come chi non conosca
la storia sia destinato a ripeterla. I personaggi che animano la sua
narrazione sono molti; ma qui varrà la pena di segnalarne un paio, due
estremi opposti per temperamento le cui peripezie finirono anche per
avere esiti opposti. Pliny Fisk e Jonas King provenivano entrambi da
famiglie povere del Massachusetts occidentale (lontano dalla costa, per
intenderci), e per entrambi la devozione al movimento evangelico
rappresentava qualcosa di più di un impegno spirituale: era pure un modo
per sfuggire all’isolamento, per ricevere un’educazione (in seminario),
forse, chissà, per farsi un nome. Fisk arrivò per primo in Medio
Oriente, a Smirne, nel 1820, con un compagno che sarebbe morto presto;
King si unì a lui nel 1822 e rimasero insieme fino al 1825, visitando
Damasco e Gerusalemme, Alessandria e Il Cairo, imparando l’arabo e
leggendo il Corano, distribuendo opuscoli e dialogando con eruditi, e
non riuscendo a convertire un singolo mussulmano.
Le loro reazioni
però, come accennavo, furono diverse, e nella loro diversità fecero
presagire un futuro di rapporti confusi e controversi fra la loro
nazione d’origine e l’ambiente in cui avevano scelto di lavorare. King,
estremamente sensibile all’immagine delle loro gesta trasmessa in
patria, si prodigò per apparire come un eroe che coraggiosamente
affrontava gravi pericoli pur di rafforzare la propria chiesa. Che si
trattasse perlopiù di fandonie non aveva importanza; quel che contava
era affermare una visione maschile dell’evangelismo, per porre riparo al
serio imbarazzo di una religione che i maschi americani non prendevano
sul serio, mentre i maschi islamici, pur se armati di pistole e
scimitarre, non mancavano mai di inchinarsi verso la Mecca cinque volte
al giorno per pregare.
Il messaggio «muscolare», da bullo di
periferia, di tanti predicatori di oggi deve parecchio, senza saperlo,
alle invenzioni di Jonas King. Fisk era più introverso, più attento, più
intellettuale, più fragile. Man mano che progrediva la sua conoscenza
degli «infedeli», si rendeva conto della faciloneria con cui erano
costruiti gli stereotipi dell’Islam e trovava sempre più difficile
sostenere con argomentazioni razionali la superiorità di un culto
fondato su un dio che ha un figlio, che s’incarna e muore, che compare
nel tempo e nel mondo umani, rispetto a un altro fondato su un dio
assolutamente e ineccepibilmente trascendente. Gli eruditi islamici,
insomma, gli davano un gran filo da torcere, mostrandosi ben differenti
dai bruti in cui aveva previsto di imbattersi. Non poteva durare. Fisk
morì a Beirut, di una febbre imprecisata, nello stesso 1825 in cui si
era separato da King. Il quale, per parte sua, lasciò il campo prima che
i pericoli si facessero reali, rivolse la sua veemenza contro i
cattolici e visse confortevolmente fino al 1869 insegnando e predicando
ad Atene. Archetipi, l’uno e l’altro, dell’eterna ambiguità americana
(o, forse, umana) nei confronti dello straniero: disprezzo o stima,
interesse o noncuranza, coinvolgimento o lotta?
Christine Leigh
Heyrman, American Apostles: When Evangelicals Entered the World of Islam
, New York, Hill and Wang, pagg. 340, $ 30