Il Sole Domenica 17.1.16
Aristotele
La politica come dovrebbe essere
di Carlo Carena
Ogni
volta che si apre un libro di Aristotele si rimane attoniti per la
straordinaria lucidità e capacità organizzativa, il possesso e il
dominio della materia, sia metafisica o etica, astronomia o zoologia,
poetica o politica. Ora è la volta della Politica nell’edizione della
Fondazione Valla - Mondadori, due tomi col testo greco di Oxford e
traduzione di Roberto Radice e Tristano Gargiulo, ampio commento di
Trevor J. Sanders e Richard Robinson.
Aristotele dà fondo qui ad
ogni problema e ad ogni discussione che la politica pone; e trattandone,
compone quella che uno dei prefatori, Richard Kraut, definisce
tranquillamente una guida completa o un manuale pratico per capi e
cittadini partecipi della vita dello Stato; un manuale che serve a
diventare esperti qui come la Poetica serve a diventare esperti nel
mestiere della letteratura.
Maestro anche nell’arte di studiare,
Aristotele partì alla larga raccogliendo le costituzioni di 158 Stati
vasti o minuscoli. E ora parte dalla considerazione che l’uomo è per
natura fatto in tal modo da vivere in società, dapprima la famiglia poi
lo Stato, poiché se si realizza pienamente egli è il migliore degli
animali ma avulso dalla giustizia è il peggiore di tutti; senza virtù è
il più selvaggio e spregevole degli esseri, votato solo al sesso e al
cibo, mentre retto dalla legge raggiunge la saggezza e la virtù. L’uomo è
un animale politico (un cittadino), e chi sta fuori dalla società
civile «è o un malvagio o un dio» (I. 2).
Scartato il comunismo
assoluto, assurdo e immorale predicato da Platone nella Repubblica,
vengono analizzate le tre forme classiche di governo: quello democratico
di tutto il popolo, quello aristocratico di alcuni pochi e quello
monarchico di uno solo. Di ognuna sono enunciati pregi e difetti, senza
nascondersi che alla fine la difficoltà in tali cose non consiste tanto
nel pensarle bene quanto nel metterle in pratica.
Ogni soluzione
pone infatti delle difficoltà, anche quella che sembra apparire la
migliore, il regime democratico, ossia la sovranità della maggioranza.
Infatti i molti, sebbene presi uno per uno non siano uomini di valore,
tuttavia, raggruppati, possono risultare tali: «come i banchetti cui
molti contribuiscono riescono meglio di quelli allestiti da uno solo».
Ma non conviene che la moltitudine detenga ed eserciti direttamente il
supremo potere, essa deve parteciparvi col potere elettivo. «Il
principio fondamentale della costituzione democratica – spiega,
piuttosto che aderirvi ciecamente nel libro VI – è la libertà (alcuni
sogliono, infatti, affermare che solo in questa forma di costituzione si
condivide la libertà, la quale, dicono, è l’ideale di ogni
democrazia)».
Un principio deve essere in ogni caso ben saldo e
rispettato: fine e scopo dello Stato è il bene comune, ed esso risiede
nella vita retta dei cittadini. Perciò solo quei cittadini che per la
loro rettitudine morale sono capaci di rendere la propria città un luogo
degno di vivervi, hanno diritto di reggerla. I mezzi e gli scopi della
politica sono gli stessi dell’etica. È significativo che il futuro
trattato della Politica sia già enunciato alla fine dell’Etica
nicomachea, come se si trattasse di due componenti di un’unica scienza,
la scienza umana; ed è delineato esattamente come poi si concretò:
dapprima chiarire e stabilire quanto di giusto hanno detto i
predecessori, poi indagare fra le costituzioni ciò che porta alla
conservazione degli Stati e ciò che invece li porta alla distruzione. E
in definitiva, ancora un volta, è la stessa medietà, e mediazione, che
presiede all’etica e informa tutto il pensiero aristotelico, a informare
anche qui il suo pensiero politico.
Perciò, anche, la stirpe
greca continua ad essere libera: perché abitando le regioni intermedie
della terra possiede tutte le capacità degli altri, dei popoli dei
luoghi freddi, coraggiosi e liberi ma politicamente disorganizzati, e
degli asiatici, intelligenti e abili ma vili per cui conducono
un’esistenza servile, da succubi (VII 7).
Scorrendo queste pagine
il lettore s’imbatte continuamente in pensieri – anche pregiudizi,
certamente – che lo arrestano e spesso lo fanno pensare all’oggi: «La
cosa più grave è l’ingiustizia allorché ha dalla sua la forza delle armi
(I 2). Un individuo senza virtù diviene l’essere di gran lunga più
empio e selvaggio (ivi). La povertà genera il disordine e la criminalità
(II 6). Le più gravi ingiustizie non si compiono sulla spinta delle
necessità, ma dell’eccesso: non si diventa tiranni per salvarsi dal
freddo (II 7). È impossibile che una città sia composta solo di uomini
buoni (III 4). La società si è formata soprattutto per migliorare la
qualità della vita e non solo per vivere né tanto meno per agevolare i
traffici e gli scambi reciproci (III 9). Il bene politico è la
giustizia, ossia l’interesse comune (III 12). La gente pensa che la
causa della felicità siano i beni materiali, come se un’insigne ed
eccellente esecuzione musicale si dovesse attribuire alla lira e non
all’arte (VII 13). Si deve pur svolgere un lavoro, ma è meglio godere di
pace e tempo libero, attendendo in special modo a ciò che è nobile (VII
14). Si comprende perché gli antichi inclusero nel programma di studi
la musica, non come materia necessaria (non ha nulla di necessario) né
in quanto materia utile come ad esempio la scrittura oppure il disegno,
né tanto meno la ginnastica; ma il suo posto più appropriato è nella
vita di uomini liberi. Per questo Odisseo dice che la vita migliore è
quando gli uomini sono pieni di allegria e i convitati ascoltano il
cantore, sedendo l’uno a fianco degli altri (VIII 3)».
Aristotele,
Politica , 2 volumi, introduzione di Luciano Canfora e Richard Kraut,
traduzione di Roberto Radice e Tristano Gargiulo, commento di Trevor J.
Saunders, Richard Robinson, David Keyt, Richard Kraut, Fondazione Valla -
Mondadori, Milano, pagg. CXVI-466, XLVI-558, € 60