Il Sole Domenica 10.1.16
Elzeviro
Giubileo catto-luterano
di Lorenzo Tomasin
Per
i protestanti la parola «Jubiläum» indica il 500esimo anniversario
delle 95 Tesi che si celebrerà nel 2017. Papa Francesco ha voluto
giocare d’anticipo?
La parola giubileo, di origine ebraica, in
alcune lingue europee significa «anniversario», «ricorrenza
calendariale». In tedesco, ad esempio, tale è oggi il significato comune
di Jubiläum: e nella terra Martin Lutero – ma anche in quelle di
Calvino, Farel, Beda e Knox, i riformatori effigiati su un famoso muro
di Ginevra – un giubileo s’attende per il 2017. È il cinquecentesimo
anniversario della pubblicazione delle 95 tesi di Lutero. La suggestiva
quasi-coincidenza del giubileo della Riforma e del giubileo proclamato,
con un anno d’anticipo su quello, dalla chiesa di Roma, è stata notata
in terra protestante, dove qualcuno ha persino temuto che l’uno rischi
di (o addirittura miri a) mettere in ombra l’altro.
L’attenzione
alla storia da parte del mainstream cattolico contemporaneo porterebbe a
escludere una studiata sovrapposizione. Si tratta, forse, di una
casualità, ma è pur vero che in tal modo un giubileo «straordinario»,
cioè non previsto dal calendario, dedicato alla «misericordia» (tutti i
giubilei cattolici, a ben vedere, lo sono, visto che in questione c’è
sempre la remissione dei peccati) finisce curiosamente per coincidere
con i cinquecento anni dal 1516. In quei mesi, che Lutero ricordava come
quelli in cui «cominciai a scrivere contro il papato», la dottrina
cattolica della misericordia fu messa in discussione nel suo presupposto
fondamentale, cioè nella prerogativa papale di gestire il perdono e la
remissione dei peccati come un patrimonio a sua disposizione,
amministrandoli in modo ordinario o straordinario, a seconda delle
necessità di fare cassa, o di monopolizzare un’anche più redditizia
audience. Ancora nella bolla emessa per l’attuale giubileo si parla ad
esempio del perdono di «peccati che sono riservati alla Sede
Apostolica». Dove riservati andrà sperabilmente riferito alla loro
remissione, non – come la formula potrebbe far supporre – alla facoltà
di commetterli.
Il testo delle tesi luterane del 1517 verteva in
effetti su una disputa che non era né politica, né economica, ma appunto
teologica, giacché di teologia, a quel tempo, il papato si occupava
ancora tanto intensamente quanto strumentalmente.
Una riduttiva
vulgata connette la polemica luterana al mero impiego del denaro nella
compravendita delle indulgenze: Leone X, come è noto, aveva bisogno di
rimpinguare le esauste casse pontificie, giacché il Rinascimento oltre
ai suoi splendori ebbe pure i suoi costi.
Ma è ben noto, almeno
fuori d’Italia, che buona parte delle 95 degnità luterane verte proprio
sul tema della misericordia e della remissione dei peccati, rovesciando
la prospettiva per cui il perdono parte da un’indizione papale e piove
sui fedeli e proponendo la conversione individuale del fedele come vera,
unica e costante fonte della misericordia. L’obiezione valeva,
peraltro, anche a rivisitare, contestualizzandola, la riflessione
cristiana sulla povertà materiale (tesi 59: «San Lorenzo ha detto che il
tesoro della chiesa sono i poveri, ma l’impiego di questo vocabolo
esprimeva la concezione del suo tempo»: si trattava in effetti di uno
degli argomenti che inducevano i fedeli a devolvere offerte). Le 95 tesi
vi contrappongono, come è noto, una visione spirituale più impegnativa –
seppur ancora confusa e abbozzata –, ma insieme più concretamente
storica, della chiesa (tesi 62: «Il vero tesoro della chiesa è il santo
vangelo della gloria e della grazia di Dio»). Per un’altra curiosa e -
ancora - certo casuale coincidenza, le parole di Lorenzo chiosate dalla
luterana tesi 59 sono state ripetute qualche settimana fa dall’attuale
papa. La concezione del nostro tempo (parafrasando Lutero) ha reso
quella frase ben gradita ai media, soprattutto a quelli italiani, in cui
i temi giubilari ricorrono con intensità maggiore che altrove, e
generalmente in assenza di riferimenti diversi dalla prospettiva attuale
del Vaticano o di pochi altri colli tiberini. Così, le parole sul
tesoro della chiesa sono state presentate come profondamente
rivoluzionarie e innovative. Come in molti altri casi, la loro immediata
efficacia ha coperto ogni riferimento alla loro storia, alla loro
percezione e alla loro sedimentazione nel dibattito cristiano. Da
espressione coperta di una scaltra strategia di fund raising, esse sono
state promosse a efficace slogan di un pauperismo che pure riconduce, in
forme nuove, la religione a una funzione che pare prioritariamente
economica, cioè a un discorso sui beni terreni, punto di partenza e
punto d’arrivo di una misericordia tutta strumentale. Del resto, anche
nella pratica cinquecentesca delle indulgenze il bando papale si
traduceva in un’omelia sul denaro, che i banditori pontifici deprecavano
nel momento stesso in cui invitavano a devolverlo per ottenere
misericordia. Avidità e pauperismo possono talora essere due facce della
stessa medaglia, cioè della stessa ossessione per i beni secolari.
Cinquecento
anni dopo (e in un cattolicesimo ormai dimentico di quella storia),
denominazione, natura e cronologia del giubileo della misericordia non
sembrano filtrate da un’adeguata considerazione storica. Apparire
innovativi, se non rivoluzionari, diventa così possibile nel solco di
una indisturbata continuità e in un contesto culturale sempre più
schiacciato sul presente, che tende semplicemente a ignorare la lunga
prospettiva storica in cui atti e testi – quindi anche bolle e giubilei –
vanno letti. Adattandosi abilmente a un’epoca ormai indisponibile alla
riflessione storica (e figurarsi a quella teologica…), la grande
kermesse giubilare ritorna in forme e in parole che forse paiono talor a
nuove, sui passi di una vicenda antica e, forse, semplicemente rimossa.