domenica 10 gennaio 2016

Il Sole Domenica 10.1.16
Arte in guerra
Il bottino italiano dell’Armata Rossa
di Antonio Paolucci

Nel Giugno del 1941 le divisioni corazzate tedesche invadono la Russia. Quella sciagurata e criminale impresa alla quale purtroppo partecipò anche l'Italia, conobbe all'inizio successi clamorosi; immensi spazi conquistati, intere armate sovietiche accerchiate, distrutte o fatte prigioniere. Al Natale del 1941 le avanguardie naziste erano arrivate alla periferia di Mosca.
Poi le cose cambiarono e il merito principale va riconosciuto a Stalin il quale seppe risvegliare il patriottismo russo. Come uno zar ortodosso dei secoli antichi, come Alessandro I Romanov al tempo dell'invasione napoleonica, rivolgendosi agli uomini e alle donne chiamandoli fratelli e sorelle e non compagni e compagne, Stalin fece si che la guerra al fascismo (la parola “nazismo” era interdetta perché conteneva il termine “socialismo”) diventasse la “grande guerra patriottica”; come a Est della Vistola è ancora oggi definita la seconda guerra mondiale. Al prezzo di uno spaventoso tributo di sangue (almeno venti milioni di morti russi fra vittime civili e militari) il nemico invasore venne ricacciato oltre i confini della patria e nell'Aprile del 1945 l'Armata Rossa del maresciallo Zukov occupava Berlino.
Tra le tante conseguenze di quella immane tragedia ci fu anche una imponente migrazione di opere d'arte dalla Germania occupata alla Russia. Tutto ciò che appariva di interesse archeologico o artistico sequestrato dagli ufficiali dell'Armata Rossa nelle collezioni private o nei palazzi pubblici, veniva sommariamente inventariato e spedito in patria. Soprattutto il Museo Pushkin di
Mosca fu, fra il 1946 e il '48, il destinatario di questo vasto trasferimento di opere d'arte oggi acquisite al demanio dello Stato.
Non è qui il luogo di discutere di contenziosi, a settanta anni dalla fine della guerra ancora aperti, nel merito di eventuali o possibili restituzioni. Ciò che mi interessa è segnalare un libro uscito a Mosca nel 2014 e dedicato ai dipinti italiani fra il 14° e il 18° secolo custoditi al Pushkin e frutto delle requisizioni e delle nazionalizzazioni di guerra. Il libro è in russo ma dispone di traduzioni in inglese oltre che di un apparato fotografico di estremo interesse. Ne è autrice l'amica e collega Victoria Markova, curatrice del Museo Pushkin, italianista di internazionale notorietà e prestigio, frequentatrice abituale del Kunsthistorisches Institut di Firenze, della Hertziana di Roma, oltre che dei Musei e delle Soprintendenze d'Italia. Sono 123 i dipinti che la Markova studia e pubblica, tutti per comprensibili ragioni praticamente inediti o solo raramente citati in pubblicazioni anteguerra. Tutti insieme fanno un corpus compatto, coerente, della pittura italiana fra Trecento e Settecento. Si va dalla “Crocifissione” del riminese Baronzio già nella collezione dei conti di Ingenheim al “Ritratto del Podestà di Brescia Giovanni Grassi” di Alessandro Longhi che porta l a data del 1784 e che era destinato al “Fhürer Museum” di Linz, la raccolta di opere d'arte che nella città natale, Hitler voleva consegnare alla sua gloria futura.
Ci sono dipinti di alta qualità come il Cosimo Rosselli (“Madonna in trono fra i Santi Girolamo ed Antonio da Padova”) già nella raccolta del collezionista e antiquario Otto Lanz o come la raffinata “Madonna con il Bambino” di Liberale da Verona sequestrata in Polonia e proveniente, forse, da una galleria d'arte viennese. La pala di Boccaccio Boccaccino datata al 1510 e raffigurante l' “Apparizione della Vergine a San Bernardo” (anch'essa di provenienza Otto Lanz) è una acquisizione preziosa per la conoscenza del primo Rinascimento in Lombardia. Di notevole interesse è anche il tondo di Biagio d'Antonio raffigurante “Madonna col Bambino e un angelo” già nella raccolta del mercante inglese Edward Solley, poi nel Palazzo Pubblico di Berlino, infine nei depositi di Potsdam.
L'acquisizione più importante riguarda il nucleo di opere italiane (30 numeri di catalogo) sequestrate nella collezione di Hermann Voss custodita a Weesenstein presso Dresda. Come chiunque faccia la professione di storico dell'arte sa bene, il Voss si colloca come un gigante nella storiografia del Novecento. Il suo “La pittura del tardo Rinascimento in Roma e Firenze” del 1920 resta, ancora oggi, un testo fondamentale.
Uomo di grande potere accademico, studioso di altissimo rango, direttore delle Gallerie di Dresda, non sgradito al regime nazista al punto di essere coinvolto nel progetto del Museo di Linz, Voss nel 1945 lasciò la Germania occupata dalle truppe sovietiche per riparare a Monaco dove concluse la sua esistenza. È evidente che un uomo siffatto, al momento di costruirsi durante l'arco di una vita la sua collezione privata, ha saputo scegliere ed ha scelto così come lo orientavano i suoi studi e i suoi interessi scientifici. Il nucleo Voss dei dipinti italiani arrivati al Pushkin comprende una serie cospicua di autentici capolavori. Dal “Lamento sul Cristo morto” di Paolo Veronese già nella collezione romana di Olimpia Aldobrandini, al singolare Angelo Caroselli della “Donna che canta”, un dipinto naturalistico che diresti in bilico fra il picaresco e l'erotico. Dal mirabile “Baccanale” del Grechetto, squisita rivisitazione in chiave barocca dei celebri teleri di Tiziano al “Lot e le figlie” di Sebastiano Mazzoni, un'opera che si colloca ai vertici del Seicento italiano più estroso e più seduttivo, alla “Creazione di Eva” di Giulio Carpioni, al dipinto dal raro soggetto iconografico dei “Sarmati alla tomba di Ovidio” di Johann Heinrich Schönfeld, artista tedesco a lungo operoso a Napoli. Già da questo breve elenco è possibile capire i diramati itinerari scientifici dello studioso e conoscitore Hermann Voss, i suoi raffinati percorsi nei meandri meno esplorati della antica pittura italiana. Sono interessi che si riflettono nella sua collezione privata.
Attraverso 123 schede e un folto apparato di bibliografia e di indici Victoria Markova analizza e consegna agli studi il corpus pittorico italiano che la guerra ha depositato al Pushkin di Mosca. Le ferite che la storia ha lasciato nel corpo e nella memoria dei popoli si rimarginano anche con operazioni di questo genere.