domenica 10 gennaio 2016

Il Sole Domenica 10.1.16
La fortuna dei bronzi di Riace
Tre motivi li hanno resi così celebri: la nostalgia per la Grecia classica, il ritrovamento rocambolesco, la loro indicibile bellezza
di Salvatore Settis

La popolarità dei bronzi di Riace ha una data di nascita: dicembre 1981, quando, esposti per la prima volta a Firenze in una mostra programmata per tre sole settimane, furono scoperti dal grande pubblico, che ne impose la fama e costrinse a prorogare la mostra fino al 24 giugno, inducendo poi il presidente Pertini a offrire il Quirinale per una “seconda tappa”, ancor più fortunata e affollata della prima. I Bronzi approdarono infine al Museo Nazionale di Reggio Calabria, dove nei primi anni accorsero simili folle, come anche recentemente con la riapertura del museo e la collocazione dei Bronzi in una delle pochissime sale visitabili. Catturare il grande pubblico è il sogno di ogni museo, di ogni curatore di mostre (donde enormi spese in pubblicità). Ma in questo caso è il grande pubblico che, a pubblicità zero, decretò il successo e la fama dei Bronzi. Anzi, essi sono il solo caso, nell’ultimo mezzo secolo, in cui delle sculture antiche diventano icone della cultura popolare, che ha battuto - nel tempo, ma anche nell’intensità e nella passione- l’analisi e le prudenze degli specialisti. Fenomeno tanto più singolare perché coincidente con il progressivo arretrare del mondo classico nella cultura generale. Chiediamoci dunque il perché di questa reazione emotiva così corale, di questo trionfo decretato “dal basso”.
Un primo dato che colpisce la fantasia fu la loro scoperta, a soli sei metri di profondità e a poche centinaia di metri dalla riva di Riace, fra il 16 e il 21 agosto 1972. Ripescare in mare statue di bronzo non è raro: una simile scoperta è rappresentata in un sarcofago di Ostia del I secolo a.C., dove i pescatori tirano a riva nella rete una statua di Ercole; e quasi tutti i bronzi greci che oggi possediamo vengono da scoperte in mare (così per esempio il dio di Capo Artemisio o il Satiro di Mazara). In questi casi, si cerca il relitto della nave che li trasportava, per datare quanto meno il momento del naufragio. Ma le ricerche nel mare di Riace (in due fasi: 1973 e 1981) dettero risultati modesti: venti anelli in piombo e una maniglia in bronzo di scudo. E se il relitto in quella zona non c’è, forse le statue furono gettate fuori bordo durante una tempesta per alleggerire la nave, che forse si salvò o forse naufragò lontano da lì.
Ma le principali ragioni della fama dei Bronzi sono altre: la loro straordinaria qualità artistica e quella che possiamo chiamare la “nostalgia dei bronzi greci”. Anche nel Medio Evo, e più ancora nel Rinascimento, ogni lettore di Plinio sapeva che gli stessi Romani consideravano l’arte greca molto più importante della propria; e che per i Greci il bronzo era più importante del marmo. Eppure, anche se le città greche erano popolate da migliaia di statue bronzee (ce lo dicono le fonti antiche), quasi tutte furono spezzate e fuse in età medievale per farne monete, spade, coltelli, utensili d’ogni sorta: il valore del nudo metallo era ormai maggiore di ogni merito artistico. Anche le statue dei maestri più famosi (come Policleto, Mirone, Lisippo) non sfuggirono a questo destino. Oggi è difficile credere che fino a poco più di un secolo fa non si conosceva quasi nessuna statua greca in bronzo. Del resto anche ora ne abbiamo pochissime (un centinaio), rispetto alla loro frequenza nelle città antiche. Perciò alcuni bronzi romani (come lo Spinario a Roma o l’Idolino a Firenze) furono interpretati come greci; e la statua di un Orante, scoperta presso Rodi nel 1503, fu molto contesa, peregrinando fra collezionisti a Venezia, Verona, Mantova, Londra, Parigi, Vienna, Potsdam, Berlino. Si dovette arrivare all’Ottocento perché altri bronzi greci entrassero in scena. L’Apollo di Piombino, emerso nel 1832 (oggi al Louvre) è di età romana, ma opera di maestri greci; ma a dare la stura alle scoperte più importanti fu la sensazionale scoperta dell’Auriga di Delfi (1896), per una volta non in mare ma nelle rovine del santuario di Apollo.
Questo è il contesto entro il quale va vista la fortuna dei bronzi di Riace. Quando furono esposti in sordina a Firenze fu come se la lunga nostalgia della perduta scultura greca in bronzo, penetrata nella nostra cultura anche attraverso la letteratura, avesse incontrato qualcosa che stavamo aspettando. Al tempo stesso la nuova scoperta, per la straordinaria forza e presenza iconica dei due Bronzi, sfida ogni concezione statica e libresca della scultura greco-romana, suggerendo qualcosa di inatteso, un’altra classicità più violenta e più vera, per la polimatericità e policromia dei Bronzi: labbra e areole di rame, denti d’argento, occhi d’avorio e pasta vitrea, e una coloritura originaria della pelle vicina a un caldo e naturalistico colore “ramato”.
Terza e suprema ragione della fama dei Bronzi, la loro qualità artistica. Si fanno, anche se senza prove finali, i nomi di artisti come Fidia, Mirone, Pitagora di Reggio come possibili autori di una delle due statue, o di entrambe. Si discute se le statue, strappate dalle loro basi in un qualche santuario greco, stessero insieme anche nella loro collocazione originaria, chi rappresentassero, se fossero parte di un gruppo più vasto. Si disputa sulla cronologia, che comunque oscilla intorno al 450 a. C. (isolato e inconsistente il tentativo di leggerle come copie romane). Si prova a ipotizzare sia il contesto di provenienza (Atene? Olimpia? Delfi? o altro ancora?) sia il momento in cui ne furono asportate e caricate sulla nave che le avrebbe lasciate sulle coste calabresi. Domande per gli specialisti, che cercano di estorcere ai Bronzi i loro segreti, per esempio mediante l’analisi delle terre di fusione rimaste al loro interno. Ma anche il grande pubblico, di fronte a opere di tale presenza scenica, si interroga: perciò alcune recenti ipotesi (Vinzenz Brinkmann, Giuseppe Pucci), che puntano sulle qualità narrative dei Bronzi e cercano di identificare i personaggi che essi rappresentano, ravvivano e rilanciano l’interesse generale.
Manca un ingrediente: ed è quella riapertura totale del Museo di Reggio che, togliendo i Bronzi dal loro isolamento, li farebbe dialogare con opere di altissima qualità (per esempio le statue templari e i pinakes di Locri), aiutandoci a capire che Grecia e Magna Grecia furono una sola civiltà. «Pensando al domani», ha scritto il nuovo direttore del Museo Carmelo Malacrino, si dovrà dar rilievo «alle ricche collezioni di reperti provenienti da tutta la Calabria» e «agganciare al potere attrativo del Museo l’offerta di percorsi culturali attrezzati», incluso il paesaggio. Ma i Bronzi da soli non faranno questo miracolo, se le istituzioni non investiranno le necessarie risorse. I Bronzi lo meritano, la Calabria e l’Italia ne hanno bisogno.