Il Sole Domenica 10.1.16
Lettera da Vienna
Il «ricercatore» dei boia nazisti
Una nuova sede per il centro intitolato a Simon Wiesenthal
Favorire gli studi sull’Olocausto per scongiurare il plagio dei giovani da parte dei fondamentalisti
di Flavia Foradini
Il
31 gennaio 2016 scade il bando di concorso per le borse di ricerca
sull’Olocausto per il 2016/17 presso il Vienna Wiesenthal Institute
http://www.vwi.ac.at/
La sua ultima dimora sarebbe
stata in Israele, decise Simon Wiesenthal, e così fu, quando, nel 2005,
morì all’età di 96 anni. Venne tumulato in una tomba lontano
dall’Europa, lontano dall’Austria e da Vienna, la città dove era
arrivato come profugo dalla Galizia dopo la Prima guerra mondiale e dove
aveva trascorso quasi tutta la sua vita successiva.
Si sentiva
austriaco, Simon Wiesenthal, ma se nel secondo dopoguerra si era fatto
presto una fama a livello internazionale come “cacciatore di nazisti”,
per le sue indagini non sempre ortodosse sui criminali nazisti, in
patria per decenni era stato osteggiato a tal punto, da dover vivere
sotto scorta: «Ogni settimana ricevo due o tre lettere minatorie. Se per
caso non arrivano, mi sembra che qualcosa non vada», diceva scherzando.
Quelle missive, le conservava raccolte in faldoni con l’etichetta “M” -
“Meschugge” - pazzi. Però le minacce erano tanto reali da far sì che
sul pianerottolo del suo ufficio al numero 6 della Salztorgasse, vi
fosse sempre una guardia.
Dentro, l’appartamento modestamente
arredato lasciava stupiti: qualche telefono, macchine per scrivere
vintage, faldoni e scatole allineati sugli scarni scaffali alle pareti,
davano l’impressione di un’attività insignificante, piuttosto che della
centrale operativa di un uomo capace di far aprire alle autorità oltre
un migliaio di procedimenti contro boia nazisti, che Wiesenthal tuttavia
non voleva definire criminali di guerra: «Sarebbe dargli una dignità
che non meritano: erano solo delinquenti in uniforme». Oggi gli si
riconoscono meriti nella caccia a carnefici come Adolf Eichmann, Franz
Stangl, Karl Silberbauer, Franz Murer, Josef Schwammberger. Si mise
invece contro mezzo mondo nel 1986 quando concluse che non vi fossero
sufficienti prove contro Kurt Waldheim, ex segretario generale dell’Onu e
presidente della Repubblica austriaca, per definirlo un criminale: «Non
credo tuttora che non sapesse nulla della deportazione di 50mila
persone a pochi chilometri dalla sua sede di lavoro, in Macedonia. Ma
non c’erano documenti probanti».
Il motore primo della sua acribia
nel ricercare e soppesare indizi e prove, era una sete di giustizia che
voleva dare nomi e cognomi agli orrori del Terzo Reich. Da qui il suo
ammonimento: «Nella bibbia, nell’episodio di Sodoma e Gomorra, Abramo
dice a Dio: “Se in quella città ci sono anche soltanto dieci uomini
giusti, ti prego, non distruggerla”. Questa intercessione di Abramo è il
primo, emblematico rifiuto della colpa collettiva: non si deve
identificare il nazismo con il popolo tedesco».
Quel suo chiamare
per nome i colpevoli lo portò a dure parole contro il cristianesimo:
«Anche Martin Lutero contribuì a formare l’atteggiamento antisemita di
molti protestanti tedeschi. E solo Papa Giovanni XXIII chiamò gli ebrei
“fratelli”».
Nonostante le indelebili macchie di sangue ebraico
nel passato cristiano, Wiesenthal attribuiva proprio alle religioni un
ruolo cardine per il futuro e in particolare per far sì che le future
generazioni non ripetessero gli orrori del nazismo: «I rappresentanti
delle diverse religioni hanno la possibilità di raggiungere più persone
di tutti i partiti politici assieme. Se essi si accordano per fare
dell’eliminazione dell’odio la loro causa comune, troveranno anche il
modo di informare i loro fedeli in tutto il mondo e di influenzarli»,
disse in occasione di un convegno viennese nell’ultimo scorcio del
Novecento, organizzato per indagare le “radici dell’odio”.
Non si
era ancora in tempi di Isis, ma le sue sono parole che hanno validità
anche oggi: «I partiti democratici non hanno saputo raccogliere attorno a
sé i giovani. Però chi trascura le nuove generazioni, fa il gioco degli
estremisti. Cosa fanno le dittature, non importa se di destra o di
sinistra? Si occupano dei giovani, dalla mattina alla sera, facendo
nascere in loro idee megalomani, infilandoli nelle uniformi e
addestrandoli alla guerra e a morire da eroi, senza dire loro quanto è
meschina e sporca la morte vera. I giovani hanno la tendenza a gettarsi
nelle braccia della morte, per fuggire alla perdita di senso, per
spezzare il cerchio della loro scontentezza. Le dittature incoraggiano
questa tendenza. Le democrazie non lo capiscono e lasciano i giovani a
loro stessi».
«È la tenacia il suo testamento spirituale», ci dice
Werner Hanak-Lettner, curatore della mostra «Simon Wiesenthal e Vienna»
al Museo Ebraico della capitale austriaca, che fino all’8 maggio
ricorda la vita e l’operato dello scomodo “ricercatore”, come Wiesenthal
preferiva essere chiamato. L’iniziativa dello Jüdisches Museum farà
anche da cornice all’apertura della nuova sede del Vienna Wiesenthal
Institute (VWI), fondato dopo tante esitazioni nel 2008 e che dalla
primavera disporrà di spazi adatti a portare avanti estese ricerche
sull’Olocausto. Già da ora, un ben dotato programma di borse di studio
internazionali chiama nella capitale austriaca ogni anno una decina di
ricercatori anche assai giovani, per approfondire temi ancora da
scandagliare: «Lo stesso Wiesenthal era convinto che fosse necessario
trovare nuovi approcci alle ricerche sulla Shoah. E sono moltissimi i
campi di cui sappiamo ancora troppo poco, dalla persecuzione degli
omosessuali, ai lavoratori forzati ebreo-ungheresi qui a Vienna, a
coloro che passarono la guerra nascosti, i cosiddetti “u-boote”», ci
dice lo storico Béla Rasky, direttore del VWI.
La nuova sede nelle
immediate vicinanze della sinagoga, ospiterà anche parte del rilevante
archivio della Comunità Ebraica di Vienna, una biblioteca, e
naturalmente l’intero archivio di Wiesenthal dalla Salztorgasse, che
verrà definitivamente chiuso: «A me fa male sapere che dovremo lasciare
quell’appartamento e che non ci sarà più, ma i costi per tenerlo sono
semplicemente troppo elevati. Tuttavia, prima ne faremo un’ampia
documentazione fotografica. E del resto è un dato di fatto: senza la
presenza di quei materiali, non ha senso tenerlo, perché senza di essi
c’è davvero poco altro».