Il Sole 5.1.16
Il fattore «T» nelle mosse saudite
Lotta contro il tempo dell’Arabia Saudita per mantenere la leadership
di Vittorio Emanuele Parsi
Non è certo stata casuale l’esecuzione dell’imam sciita saudita al Nimr né è sostenibile che la veemente reazione iraniana giunga imprevista. Con ogni evidenza lo scopo della sanguinaria mossa saudita era proprio provocarla, nel disperato tentativo di invertire l’inerzia politica della regione, che dopo il raggiungimento dell'accordo sul nucleare tra Iran e “5+1” sta sempre più volgendo a favore di Teheran.
I Sauditi hanno ingaggiato una disperata lotta contro il tempo, nel tentativo di intercettare e bloccare questo movimento che rischia di disegnare un nuovo status quo regionale, all’interno del quale il loro ruolo sarebbe ridimensionato a tutto vantaggio del nemico iraniano. La loro risolutezza è “giustificata” da 3 fattori che stanno modificando l’ordine della regione del Golfo e del Levante e che determinano la scelta da parte di Riad di giocare il tutto per tutto, in un’escalation che potrebbe anche portare alla guerra tra Iran e Arabia Saudita.
Il primo, acutizzatosi proprio sul finire dello scorso anno con gli attentati parigini, è il riallineamento degli attori rispetto alla minaccia strategica costituita dall’Isis. La devastante capacità operativa dimostrata dai seguaci di al-Baghdadi nel cuore d’Europa ha scosso allineamenti consolidati, convincendo i Paesi occidentali che la minaccia principale all’ordine regionale (e l’alimentazione al terrorismo che ne consegue) non è più rappresentata dall’Iran sciita e dal suo opaco programma nucleare, ma dalla vivida presenza dello Stato Islamico sunnita. Tale nuova consapevolezza ha portato all’ammissione dell’Iran nei colloqui viennesi sulla Siria, all’accettazione tacita della relazione sempre più stretta tra Iraq e Iran, alla riconsiderazione dello stesso ruolo del regime siriano. Nel frattempo, la Russia ha stretto l’embrione di un’alleanza di fatto con l’Iran proprio in Siria e coordina le sue azioni militari con la Francia. A completare un quadro già di per sé negativo per gli interessi sauditi, è il peggioramento della relazione con l’America, ormai indipendente dal petrolio del Golfo e disposta a sfidare l’ira di Riad (e di Tel-Aviv) pur di portare a casa l’accordo sul nucleare iraniano.
Proprio quest’ultimo, ecco il secondo fattore, ha provocato un vero e proprio mutamento dell’equilibrio di potere nella regione: l’Iran non è più lo Stato paria del medio Oriente e il nemico della comunità internazionale: anzi, il suo peso strategico cresce di settimana in settimana. Nei prossimi giorni è atteso il via libera da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica alla revoca delle prime sanzioni nei confronti dell’Iran. Se l’accordo reggerà, ogni giorno che passa l’Iran sarà un attore un po’ più forte, più ricco e più credibile: un interlocutore imprescindibile per la realizzazione di un nuovo status quo mediorientale (del quale sarà un protagonista), che porrà fine del sogno egemonico della monarchia saudita.
ll terzo fattore è rappresentato dalla crescente fragilità interna del Regno, alle prese con una non facile successione dinastica (momento, per definizione, di elevata instabilità per un regime come quello saudita) caratterizzata all’apparenza da un’oscillazione del pendolo del potere interno a favore delle autorità religiose piuttosto che verso la monarchia. Il sodalizio tra autorità politiche e autorità religiose è plurisecolare ma non per questo privo di ambiguità e frizioni. In questi mesi, il tentativo di prendere le distanze dall’Isis è stato comunque “bilanciato” da un giro di vite autoritario, quai a voler rassicura i settori più tradizionalisti che “tutto cambia affinché nulla cambi”. Non vanno poi scordati il ruolo sempre più preoccupante dell’estremismo interno e le tensioni con la discriminata minoranza sciita. Nel frattempo, la politica di ribasso del prezzo del petrolio - perseguita dai sauditi per strappare quote di mercato ai concorrenti con costi di estrazione e raffinazione più elevati - ha comunque avuto conseguenze considerevoli in termini di aumenti del deficit pubblico, riduzione delle sovvenzioni statali e calo di depositi, liquidità e riserve auree. A fronte di tutto ciò, invece, in Iran stiamo assistendo alla riarticolazione del rapporto tra Guida suprema e presidente, attraverso un processo non conflittuale che potrebbe consolidare la struttura della repubblica islamica.
In questo quadro, è proprio il raffreddamento dell’alleanza con gli Usa che spinge Riad ad affrettare i tempi nel cercare di “intrappolare” Washington, incatenandola a se stessa attraverso l’escalation della tensione regionale. È il medesimo schema visto all’opera nel 1914, quando l’irricevibilità dell’ultimatum austroungarico alla Serbia mirava proprio a costringere la Germania ad abbandonare ogni ipotesi di mediazione e schierasi a fianco di Vienna nella prospettiva di una guerra imminente. La differenza rispetto ad allora è che la Germania non aveva altri alleati possibili a parte Vienna, mentre per l’America oggi la situazione è parzialmente diversa: ma mollare i sauditi, al di là degli evidenti contraccolpi economico-finanziari, rischierebbe di far crollare l’intero sistema del Golfo, centrato proprio sull’Arabia.
Con queste promesse una de-escalation è necessaria, ma altamente improbabile, mentre resta alto il rischio di un conflitto tra Teheran e Riad. Se è vero infatti che l’Iran ha tutto l’interesse a calmare le acque, non vale lo stesso per i Sauditi. La proposta di mediazione russa (una garanzia per Teheran) offre la possibilità di una mossa congiunta americana (per rassicurare gli arabi), che però segnerebbe anche il riconoscimento definitivo del fatto che Mosca ha tratto i vantaggi strategici maggiori dall'accordo nucleare e porrebbe fine al progetto obamiano di un ordine americano per il medio oriente in cui convivessero Tel- Aviv, Riad e Tehran Ma proprio questo è quanto Washington non è ancora disposta ad accettare.