Il Sole 5.1.16
Petrolio, la monarchia ha sbagliato tutti i conti
Una strategia perdente. La famiglia Saud ha aumentato la produzione per far crollare i prezzi ma ha fatto più danni a sé che all’Iran aiutato anche dall’accordo sul nucleare
di A. N.
Occupare quote di mercato e mettere con le spalle al muro l’economia iraniana: per battere il fronte sciita i sauditi più di un anno fa hanno dato il via a una guerra del petrolio alla rovescia, aumentando la produzione e facendo crollare i prezzi. Il problema è che i mercati fanno i barili (di petrolio) ma non sempre i coperchi e che all’ebbrezza dei consumatori non corrisponde sempre una stabilità geopolitica, anzi.
L’ultima guerra nel cuore del Medio Oriente, contro il Califfato, è la più paradossale vista negli ultimi anni: le quotazioni del barile invece di salire, come quasi sempre è accaduto in passato, sono affondate. Non è questo per la verità l’unico precedente. Al vertice arabo del giugno 1990 Saddam Hussein esplose in una filippica contro il Kuwait e le monarchie del Golfo: «Estraete troppo petrolio, ogni calo di un dollaro della quotazione costa all’Iraq un miliardo l’anno». L’Iraq nell’estate del ’90 era diventato insolvente e non poteva rifondere i debiti contratti con l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo per fare la guerra all’Iran di Khomeini. Il greggio valeva in quel momento 11 dollari e la notte del 2 agosto del ’90 i carri armati iracheni invasero il Kuwait.
Prima che i sauditi decidessero la decapitazione di 47 persone tra cui l’Imam sciita Al Nimr, l’azzardo più rischioso del regno wahabita è stata proprio la politica petrolifera per contrastare Teheran.
Il punto di svolta è stata la riunione Opec del 27 novembre 2014, quando il petrolio era già precipitato da 115 a 70 dollari al barile mentre ora viaggia sotto i 40. Invocando la necessità di battere la concorrenza del petrolio di scisto americano, il ministro sauditi Ali al Naimi avviava la guerra dei prezzi: secondo la sua tesi invece di chiudere i rubinetti della produzione conveniva inondare i mercati perché una volta neutralizzato il greggio Usa, più costoso da estrarre, le quotazioni sarebbero risalite. Questa politica avrebbe avuto un effetto collaterale decisivo agli occhi dei Saud: l’asfissia economica del nemico iraniano, sostenitore del regime siriano di Bashar Assad. Come sappiamo non è andata così. Il crollo dei prezzi non si è tradotto in un aumento della domanda, in calo anche per il rallentamento della Cina, e neppure sono stati mandati fuori mercato i produttori degli Stati Uniti.
Non solo. I sauditi il 14 luglio scorso hanno subito la loro disfatta diplomatica quando l’Iran ha firmato l’accordo sul nucleare con il Cinque più Uno che dovrebbe portare tra qualche settimana alla cancellazione di gran parte delle sanzioni, segnando il ritorno della repubblica islamica nel circuito economico e finanziario internazionale. Grazie all’accordo nel 2015 gli ayatollah sono riusciti a ridurre di un ulteriore 8% la dipendenza dal settore petrolifero mentre Riad ha accusato quest’anno un deficit di bilancio mai visto prima, circa 87 miliardi di dollari.
Tutti i calcoli di Riad si sono dimostrati sbagliati: gli americani continuano a produrre lo shale oil, l’Iran non crolla ma guadagna credibilità mentre la scommessa di abbattere con i movimenti jihadisti il regime di Bashar Assad si è spenta con l’ingresso sul campo di battaglia della Russia di Putin a fianco di Damasco. E per giunta anche la guerra in Yemen va male: i sauditi con i loro alleati arabi non hanno avuto partita vinta sui ribelli zayditi Houti sostenuti da Teheran.
In un Paese decente, che non fosse patrimonio di un’unica famiglia come i Saud, i governanti sarebbero già stati esautorati. La guerra del petrolio, avallata dal nuovo re Salman succeduto al fratellastro Abdallah, si è rivelata un’arma a doppio taglio. Strangolando le altre economie petrolifere, i sauditi hanno soffocato anche la loro e hanno dovuto inaugurare un’insolita politica di austerità in un regno dove per disinnescare le tensioni sociali si è sempre elargito denaro a piene mani. Nel corso della sua storia l’Arabia Saudita ha attraversato molte crisi ma questa, creata dalla sua leadership, appare una delle più minacciose e incontrollabili.