Il Sole 29.1.16
Domani Renzi sull’isola
L’eredità concreta di Ventotene
di Valerio Castronovo
Negli
ultimi anni è stato soprattutto il presidente della Bce Mario Draghi a
sottolineare quanto sia essenziale la costruzione di un’autentica “casa
europea”, di una grande entità politica sovranazionale, perché l’Europa
possa affrontare le sfide cruciali imposte dalla globalizzazione e
svolgere ancora un ruolo di rilievo in un mondo multipolare. E dunque
quanto sia pur sempre di stringente attualità il “Manifesto di
Ventotene”, concepito settantacinque anni fa, nel mezzo dalla seconda
guerra mondiale, che auspicava la realizzazione di un’ “Europa dei
popoli”, all'insegna di un comune sentire e nell’ambito di salde
istituzioni democratiche.
Oggi che l’edificio dell’Unione europea
risulta purtroppo esposto a scosse e lesioni di natura interna ed
esterna, che potrebbero mandarlo in pezzi, se non si provvedesse per
tempo a rafforzarne le fondamenta, risulta perciò tanto più doverosa la
decisione del capo del governo Matteo Renzi di recarsi nell’isola
pontina per rendere omaggio ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, gli
autori (con la collaborazione di Eugenio Colorni) di quel documento che è
stato l’enzima della causa europeista. È infatti indispensabile
riproporne sia i motivi ideali sia gli obiettivi concreti se crediamo
ancora nella ragion d’essere della Comunità europea e intendiamo
elaborare una prospettiva d’insieme per il futuro.
“Per un’Europa
libera e unita”, era questo il titolo del progetto messo a punto,
allorché gran parte del Continente si trovava sotto il tallone della
Germania nazista, da tre militanti antifascisti di differenti matrici
politiche e culturali, confinati a Ventotene. Rossi, tra i primi
aderenti al movimento “Giustizia e Libertà”, era un liberale radicale di
stampo anglosassone, riformista in politica e liberista in economia;
socialista era Colorni, con spiccati interessi per la filosofia e la
scienza; un ex dirigente comunista, in procinto di aderire al Partito
d’Azione, era Spinelli. Dei tre era anche quello che, fin dal 1939 (dopo
l’abiura alla sua originaria fede politica, motivata dalla propria
incompatibilità con i dogmi dello stalinismo), aveva avvertito più
intensamente la necessità di una severa riflessione sulle cause delle
degenerazioni dittatoriali e dell’immane catastrofe abbattutasi
sull’Europa. Aveva così maturato il convincimento che fosse compito
imprescindibile della sua generazione battersi per un’alternativa
politica che impedisse la resurrezione dalle ceneri della guerra di
nuovi antagonismi nazionalistici e di ogni forma di potere autoritario.
Fu lui perciò a redigere buona parte del “Manifesto” che sarebbe
divenuto nel dopoguerra la Bibbia del movimento europeista. Poiché si
trattava di un vero e proprio programma d’azione per l’avvento di
un’Unione europea, con a capo “un governo direttamente responsabile di
fronte ai popoli, dai quali verrà eletto”, che avesse per denominatori
comuni “uno scettro, una moneta, una spada”.
Peraltro, un filo
rosso collegava le tesi espresse nel “Manifesto” con una tradizione
culturale e di pensiero che annoverava fra i suoi precursori Luigi
Einaudi, uno dei padri intellettuali del liberalismo italiano. Proprio
da un saggio dell’economista piemontese, comparso nel 1918 con lo
pseudonimo di “Iunius”, Rossi e Spinelli avevano attinto alcune
motivazioni di forte spessore a sostegno dell’esigenza di sottrarre
l’Europa a quello che sino ad allora era stato il suo cupo e tragico
destino. Einaudi aveva affermato infatti che non si sarebbe giunti ad
annientare il virus del nazionalismo e a instaurare una pace duratura
favorevole a un generale progresso economico e sociale, se fossero
rimasti in vita i poteri illimitati dei singoli Stati. Ed era stato
perciò lui, quarant’anni dopo, a considerare l’esordio nel 1957 della
Cee come un passo obbligato: “il problema non è fra l’indipendenza o
l’unione, ma fra l’essere uniti o lo scomparire”.
Come sappiamo,
il processo d’integrazione non è stato affatto lineare, bensì
estremamente tortuoso, segnato da una continua tensione fra il possibile
e l’auspicabile, fra il probabile e l’ipotetico. D’altronde Spinelli,
per primo, era ben consapevole che l’Europa non sarebbe “caduta dal
cielo”. Ma riteneva ineluttabile per l’Europa, se voleva sopravvivere e
rendersi padrona del proprio destino, la sua evoluzione a cerchi
concentrici verso la mèta dell’unificazione politica. Poiché solo una
compagine, sorretta da un sistema di principi e valori sanciti da una
propria Costituzione, sarebbe stata in grado di garantire ai suoi
cittadini anche un’effettiva sicurezza, più equità e coesione sociale, e
uno sviluppo sostenibile.
Di qui l’estrema validità e pregnanza
che rivestono tuttora i suoi moniti e, più in generale, il suo magistero
politico e culturale.