Il Sole 29.1.16
Se il magnete sociale non funziona
di Hans Werner Sinn
L’ondata migratoria mette sempre più in crisi i sistemi di welfare degli Stati Ue
Il
conflitto armato che sta destabilizzando alcuni paesi arabi ha messo in
moto un’enorme ondata di rifugiati diretti per lo più in Europa. Nella
sola Germania nel 2015 ne sono arrivati circa 1,1 milioni. Al contempo,
l’adozione del principio di libertà di circolazione all’interno
dell’Europa ha innescato flussi migratori inter-europei di massa, che
passano inosservati e dei quali per lo più non ci si occupa. Nel 2014 la
Germania ha conosciuto un saldo migratorio netto con l’Ue di 304mila
persone provenienti da altri paesi dell’Unione, fatto senza precedenti, e
questa cifra, probabilmente, è stata assai simile anche nel 2015.
Alcuni
stati membri dell’Ue – tra i quali Austria, Ungheria, Slovenia, Spagna,
Francia e altri paesi che in un primo tempo si erano mostrati
particolarmente accoglienti, come Danimarca e Svezia – hanno reagito
sospendendo di fatto gli Accordi di Schengen e ripristinando i controlli
alle frontiere. Gli economisti non si stupiscono poi tanto di ciò.
Negli anni Novanta, decine di studi accademici avevano affrontato
proprio la questione delle migrazioni negli stati che offrono welfare e
prestazioni sociali, evocando molti dei problemi che ormai si vanno
chiaramente palesando. Io stesso all’epoca ho scritto molto su questo
argomento, cercando, per lo più inutilmente, di aumentare la
consapevolezza nei confronti di questo problema tra i politici.
In
gioco c’è una questione fondamentale. I welfare state sono definiti dal
principio di redistribuzione: coloro che godono di entrate superiori
alla media pagano più imposte e contributi rispetto a ciò che ricevono
indietro sotto forma di servizi pubblici, mentre coloro che hanno
entrate inferiori alla media pagano meno di quanto ricevono. Questa
redistribuzione, che drena le risorse pubbliche nette per convogliarle
verso nuclei famigliari a reddito più basso, costituisce una correzione
sensibile all’economia di mercato, una sorta di assicurazione contro le
vicissitudini della vita e la dura legge del prezzo della rarità, che
caratterizza l’economia di mercato e ha poco a che fare con la giustizia
sociale
I welfare state sono essenzialmente incompatibili con la
libera circolazione dei popoli tra i paesi se i nuovi arrivati hanno un
accesso immediato e totale alle prestazioni sociali nei paesi che li
ospitano. Qualora ciò accadesse, i paesi che li accolgono fungono da
welfare magnet (calamite sociali), e possono attirare molti più migranti
di quanti sarebbe economicamente consigliabile accogliere, perché i
nuovi arrivati ricevono, oltre ai salari, una sovvenzione sotto forma di
bonifici. Soltanto se i migranti ricevono unicamente i salari ci si può
aspettare un’auto-regolamentazione efficiente del fenomeno migratorio.
Il
primo ministro britannico David Cameron ha tratto una legittima
conclusione da tutto ciò: il fenomeno del magnetismo sociale non porta
soltanto a un’inefficiente distribuzione geografica delle persone, ma
per di più erode e nuoce anche alle capacità dello stato che eroga
prestazioni sociali. Ecco il motivo per il quale Cameron dichiara di
avere il diritto di fissare un limite al principio di integrazione, che
si dovrebbe applicare perfino per i migranti economici intra-europei.
Dice Cameron che anche nel caso in cui i migranti trovassero un lavoro,
soltanto dopo quattro anni dovrebbero avere accesso alle prestazioni
sociali offerte dal welfare finanziato dalle entrate fiscali. Ora come
ora, un periodo sostanziale di attesa è previsto e in vigore unicamente
per i cittadini dell’Ue che migrano per motivi di lavoro e che devono
risiedere nel Regno Unito cinque anni prima di conquistare il pieno
accesso alle prestazioni sociali pubbliche.
La proposta non si
tradurrà necessariamente in una maggiore severità nei confronti dei
migranti dall’Ue: essa implica semplicemente che, a prescindere dal tipo
di aiuto di cui possono aver bisogno nell’arco dei primi quattro anni,
essi dovranno riceverlo dal paese di provenienza. Indubbiamente ci
sarebbe molto da dire a favore del mantenimento temporaneo del principio
dell’addebito delle spese al paese d’origine, e sulla traduzione di
questa disposizione nelle regole dell’Ue: il paese d’origine di un
migrante dovrebbe continuare a essere responsabile nei suoi confronti e a
fornirgli prestazioni sociali per un certo numero di anni, fino a
quando non si potrà applicare il principio di integrazione.
È
difficile comprendere perché, per esempio, un tedesco che non può
lavorare e usufruisce del welfare tedesco debba essere preso in carico
dallo stato spagnolo qualora decida di vivere a Maiorca. E sarebbe
altrettanto poco plausibile negare a questa stessa persona il diritto di
scegliere il luogo nel quale eleggere il proprio domicilio a suo
piacimento soltanto per tutelare lo stato spagnolo. Se intendiamo
prendere sul serio il principio della libertà di circolazione delle
persone, dovremmo deciderci una volta per tutte a immolare la vacca
sacra dell’eleggibilità immediata ai sussidi e alle prestazioni sociali
elargite dallo stato ospite.
Quanto detto, naturalmente, non vale
per i migranti economici provenienti dai paesi extra-Ue, e ancor meno
per i rifugiati, perché in generale il principio del paese d’origine in
questi casi è inapplicabile. Ma, per le stesse motivazioni sopra
evidenziate, questi migranti non possono essere integrati a centinaia di
migliaia nel welfare state senza mettere a repentaglio la vivibilità
dell’intero sistema.
In conclusione, sarebbe necessario sostituire
al sistema dei sussidi di disoccupazione che prevale oggi, applicabile
agli aventi diritto quando costoro restano senza posto di lavoro, un
sistema che proponga e offra integrazioni salariali e lavoro a favore
della comunità. Ciò consentirebbe di abbassare le spese nette delle
prestazioni sociali e di ridurre gli incentivi a migrare. Andrea Nahles,
ministro del lavoro tedesco, di recente ha suggerito proprio questo,
difendendo ciò che i tedeschi chiamano il concetto del “posto di lavoro a
un euro”, che in pratica converte il contributo sociale in un salario.
Si
tratta di un consiglio sensato in un contesto per altro estremamente
caotico. Se si manterrà la libertà di circolazione all’interno
dell’Europa – e se proseguiranno gli afflussi di cittadini extra-Ue – i
welfare state europei si troveranno davanti a una scelta ineludibile:
adattarsi o soccombere.
(Traduzione di Anna Bissanti)