Il Sole 28.1.16
Giorno della Memoria
Un nuovo modo per insegnare storia e ricordo
di David Bidussa
Il
Giorno della Memoria continuerà, anche nei prossimi anni, ma i suoi
protagonisti sono cambiati. Il 27 gennaio del 2016 è finito un ciclo
generazionale, e con questo è finito un modo di discutere, riflettere,
parlare, comunicare i contenuti di una lezione di storia. Da quando è
nato, il Giorno della Memoria ha costituito immediatamente una pratica
emozionale fatta di tre elementi fondamentali: il testimone oculare di
un tempo storico, un mediatore professionale, che di solito è un docente
di storia, un gruppo di adolescenti che ascolta un racconto.
Il
Giorno della Memoria, in qualche modo, ha avuto la stessa struttura
narrativa di come i vecchi di una società raccontano (raccontavano) ai
più giovani la storia della propria famiglia. E di solito, stando a
questo schema, i giovani sono disposti ad ascoltare un racconto che
vogliono ereditare.
La «Generazione Doppio Zero», cioè i ragazzi
nati nei primi anni Duemila, entrati nella scuola circa dieci anni fa, e
che oggi ne stanno per uscire, non sono più quel tipo di persone. Sono
altre. Hanno strumenti propri, linguaggi propri e un senso del passato
prossimo che glielo fa percepire come se fosse già un tempo molto
lontano. Soprattutto ascoltano le parole e i racconti di chi ha 60 anni
più di loro senza immediatamente capire un mondo: o sono travolti
dall’emozione oppure ne hanno talmente paura che la rifiutano. Una
generazione che noi (e dicendo «noi» includo tutti quelli che hanno più
30 anni), dobbiamo prima di tutto ascoltare. E se non riusciamo ad
ascoltarla, non riusceremo certo a parlare con questi ragazzi. O magari
loro non avranno interesse ad ascoltare noi.
Quello che è accaduto
o sta per accadere è semplice. Dobbiamo invertire il modo di
trasmettere la conoscenza del passato. Dobbiamo partire dalle domande,
dobbiamo sentire le loro emozioni e poi dobbiamo ricostruire le
riflessioni di un giovane; e aiutarlo in questo processo. Dobbiamo
umilmente ascoltare le sue incertezze, accompagnare anche i suoi
rifiuti, insistere sulle sue perplessità, capire che lì, in quei
rifiuti, in quelle perplessità, c’è una resistenza che nasce forse anche
dall’incredulità.
Quell’incredulità nasce da una prassi che noi
abbiamo avuto in questi 15 anni, importantissimi, di Giorno della
Memoria. Ovvero, per 15 anni, abbiamo detto e fatto un’operazione di
questo tipo: abbiamo detto “voi non sapete, questa storia ve la racconto
e voi la dovete imparare e costruirci una memoria”. In questo modo la
memoria è stata in qualche modo “autoritaria”, non aveva nulla di ciò
che chiedevano i portatori primi di questa storia, coloro che si sono
presentati come eredi di una vicenda e che raccontavano una controstoria
rispetto a quella ufficiale e che per questo doveva essere creduta come
vera; per le sofferenze avute e per il rispetto dovuto a chi quelle
sofferenze aveva dovuto sopportare.
Quindici anni dopo, quelle
storie, riascoltate passivamente, non sono più delle storie percepite,
che diverranno successivamente proprie. Diceva Freud che se vuoi
imparare qualcosa devi ripercorre un’emozione, devi fare un percorso non
tuo e farlo tuo. La «Generazione Doppio Zero» è nella stessa
condizione: si deve partire dalle sue emozioni, dalle incertezze e anche
dalle domande imbarazzanti. Dobbiamo favorire i giovani, lavorando con
pazienza, includendo tante fonti (musica, narrativa, film), per far sì
che l’inquietudine di queste vicende – che è l’inquietudine del loro
vissuto quotidiano (e spesso non ha la parola per essere raccontata) –
sia “comunicata”. Paradossalmente il Giorno della Memoria ha oggi nuovi
protagonisti: quelli che hanno meno di 20 anni che chiedono che quella
storia che fino ad oggi hanno ascoltato diventi un’esperienza
emozionale, con la quale fare un percorso. Per tanti anni abbiamo
pensato che fosse sufficiente leggere una frase di Levi, un testo di
Brecht, una poesia. Oggi, per capire il percorso di disperazione e un
vissuto conflittuale dobbiamo fare ancora di più. Dobbiamo capire cosa
accade nella testa di un ragazzo quando vede «Bastardi senza gloria», o
farlo riflettere sui un film come «L’onda». Non raccontargli il
totalitarismo ma farlo confrontare con una storia come quella del film,
che lo mette davanti al fenomeno concreto. Quelle scene parleranno ad un
adolescente meglio di un qualsiasi testo teorico. E dopo, forse, gli
faranno venire voglia di scavare, di leggere, di saperne di più. La
Generazione Doppio Zero va a cercare le immagini sul web e, se trova
stimoli, allora arriverà al libro. Il compito della mia generazione è
quello di non farli sentire in colpa di questo percorso. E ricordarsi,
magari,di essere curiosa di farlo a sua volta.