il manifesto 28.1.16
La Storia segregata nella gabbia del dialogo
Giorno
della memoria. Nel ritorno dei temi della destra radicale nelle scena
pubblica, la differenza tra vittime e carnefici è ridotta
all’espressione innocente di opinioni che si equivalgono. In nome di un
«dialogo» e di un superamento del passato, Un intervento a latere nel
giorno scelto per ricordare lo sterminio degli ebrei
di Sonia Gentili
La
memoria serve se non si riduce a retorica: solo allora guida le azioni
in modo che queste non siano in contraddizione con le parole. Nel mondo
senescente e formalistico in cui viviamo, invece, la celebrazione della
sconfitta del nazifascismo (la liberazione il 25 aprile e l’entrata in
Auschwitz dell’Armata Rossa il 27 gennaio), sostanza della nostra
Repubblica, rischia di ridursi a forma poiché convive
contraddittoriamente con una demagogica e ambigua «cultura del dialogo»,
che invita, in nome della libertà d’opinione, a «dialogare» con
repubblichini, negazionisti, evoliani fascio-esoterici che glorificano
coi vari culti del sangue e del suolo le radici culturali dello
sterminio di massa a sfondo razzista. Se Louise Richardson, neo-rettore
dell’Università di Oxford, rivendica oggi questa torbida disponibilità
al dialogo come un sublime atto illuministico («La Repubblica», 18
gennaio 2016), ciò accade in conseguenza del moralismo antipolitico
affermatosi in Europa con la liquidazione dei blocchi contrapposti e del
sistema di valori e antivalori a ciò connessi. Niente è più giusto o
sbagliato, umano o disumano. Non ci sono che «opinioni», tutte
ugualmente sostenibili e da discutere, a fronte di un unico valore
trasversale e intoccabile: l’ordine e il legalismo, elevati a massimo
ideale politico cui si può aspirare.
Profezie tibetane
Grazie
alla schiuma tossica del «dialogo» e del legalismo bipartisan, prodotta
dal convergere di scorie diversissime (dall’ossessione della sicurezza e
dei confini alla retorica anticamorristica in nome della legge,
dell’abilmente post-politico Saviano, su cui vedi l’ottimo Alessandro
Dal Lago Eroi di carta, Manifestolibri), si è finito per dare della
lotta resistenziale l’immagine torbida e confusa di una guerra civile i
cui morti, fascisti e partigiani, nazisti e vittime dei nazisti,
sarebbero tutti uguali. La nostra memoria delle ricorrenze convive
dunque con l’oblio delle distinzioni. Celebriamo il giorno della
memoria, eppure non processiamo per apologia di reato – come secondo la
Costituzione dovrebbe avvenire – la rivista «Eurasia», intitolata
all’idea nazista che gli «eurasiatici» Arii siano la culla storica e
l’officina genetica della cosiddette razze superiori.
Claudio
Mutti, direttore della testata, dedica infatti un ammirato saggio, Le SS
in Tibet (edizioni Effepi, 2011), alle esplorazioni condotte in questo
luoghi per volontà di Himmler dalle SS al fine di «provare» l’origine
ariana dei tedeschi. Il livello delle «prove» descritte nel libro è,
tanto per capirci, quello delle «profezie» rese ai nazisti dai tibetani
(www.claudiomutti.com/): «Di lì a poco si sarebbe realizzata la
predizione del veggente tibetano che aveva detto a Schäfer: “Verranno
gli uomini volanti e ci sarà una grande catastrofe. Qualcosa di
terribile accadrà nelle terre degl’Inglesi e dei Tedeschi. Vi sarà una
scintilla enorme e anche la nostra religione ne sarà colpita”»). In una
intervista dal titolo Olocausto e libertà di ricerca
(http://www.claudiomutti.com/) Mutti liquida la Shoah come una
lucreziana superstizione (la chiama «religio holocaustica») ed afferma
che in realtà dai nazisti gli ebrei furono solo «maltrattati»; non
tralascia poi di precisare in altra sede che coloro che oggi si fanno
chiamare ebrei sono in realtà discendenti della stipe biblica di Gog e
Magog, mitici barbari attentatori della civiltà del Vecchio Testamento.
Il destino delle SS magicamente rivelato da profeti tibetani; l’essenza
barbarica degli ebrei provata da un ragionamento che rimette in pista il
concetto ascientifico di razza per applicarlo a miti biblici non più
sostenibili dell’età di Matusalemme.
Impossibile confronto
Di
simili argomenti potremmo ridere come si fa di superstizioni e
oroscopi, se non fosse che essi foraggiano azioni e realtà politiche
attuali (dalla greca Alba dorata alla Guardia Nazionale ungherese, dalla
tedesca come Pegida ai gruppi della destra radicale neofascista
italiana). Noi rinunciamo a legare le nostre affermazioni –
l’antifascismo come base della Repubblica affermato dalla Costituzione e
ridotto a rito annuale – alle nostre azioni, visto che non incriminiamo
le forze sinora da me nominate («Eurasia» e tutti suoi contributori, le
Edizioni all’Insegna del Veltro, il Centro Studi La Runa, il sito
internet EreticaMente) per apologia di reato, ma lasciamo che continuino
ad alimentare azioni e realtà politiche di assoluta pericolosità.
Abbiamo forse dimenticato che le idee nazifasciste sono state azioni di
sterminio?
Per questo – per il nesso che lega le idee alle azioni –
oggi ci rifiutiamo di dialogare con i sostenitori di massacri in nome
del cosiddetto Stato Islamico, e riteniamo necessario tappare loro la
bocca, oscurandone siti internet e propaganda. Se, come è giusto,
imbavagliamo i razzisti islamici, perché dovremmo «dialogare» con chi
professa principi in base a cui ci hanno torturato e sterminato nel
1938–44? Nella giornata della memoria dovremmo ricordare anzitutto che
il nazifascismo non è stato né poteva essere battuto col dialogo poiché
non ha alcuna sostanza dialogica: questa ideologia non ha affermato
altro che il diritto della forza a dominare e distruggere. Se almeno in
parte siamo sopravvissuti ad Auschwitz, ciò è avvenuto solo grazie alla
forza che abbiamo saputo opporre a chi aveva affermato il proprio
diritto a distruggerci: se non avessimo preso le armi, ci sarebbe
riuscito.
Di fronte al convegno sulla Siria organizzato presso
l’Hotel Galileo di Milano dall’estrema destra europea, cui non si è
vergognato di partecipare l’ex ministro ciellino Mario Mauro, l’Anpi ha
reagito ricordandoci che i principi nazifascisti non sono un’opinione ma
un reato (con la petizione Mettiamo fuorilegge i nazifascisti, che
invito caldamente a firmare su change.org), il che è verissimo.
D’altronde, presso il Dipartimento di storia, culture e religioni
dell’ateneo in cui insegno, l’università «La Sapienza» di Roma, si è
svolto un convegno (Relazioni pericolose. La storia delle religioni
italiana e il fascismo, 3–4 dicembre 2015) che si proponeva di reagire
con le armi della ricerca storica e del dialogo ad un colloquio dedicato
un anno fa ad Evola da storici delle religioni di estrema destra per
sancirne la grandezza culturale praticando il solito giochino di
sganciare la dimensione dell’attività intellettuale da quella della
responsabilità politica (L’eredità di Julius Evola, 29 novembre 2014).
L’astrazione dei diritti
Invitata
al convegno antievoliano, mentre denunciavo pubblicamente le testate e
gli autori parzialmente mappati in questo articolo, l’evoliano Giovanni
Casadio (che lo Stato stipendia come professore ordinario di storia
delle religioni presso l’università di Salerno) mi ha violentemente
interrotta in nome del diritto del Mutti ad esprimersi e delle sedi
editoriali da lui gestite ad esistere. Ma quale diritto? L’Anpi ci
ricorda che queste idee sono un reato e non un diritto; la maggior parte
dei miei colleghi universitari, invece, ha sminuito l’episodio o
deprecandolo privatamente o addirittura dicendo che sì, alcuni sono o
sono stati fascisti, ma in fondo tanti altri sono stati democristiani e
tanti sono oggi renziani. Cosa non va in questo commento, di cui per
carità di patria non rivelo l’autore? Cosa non va in un convegno che
cerca di reagire con le armi della ricerca storica alla rimessa in pista
di valori nazifascisti? Non va appunto il fatto che in entrambi i casi
cultura e ricerca storica sono ridotte a parole sganciate dalle azioni
fino al punto di tollerare, in nome del cosiddetto «dialogo», una
rivendicazione pubblica e verbalmente violenta, in una sede
universitaria e quindi istituzionale, del diritto di opinione
nazifascista.
Abbagli conformisti
Questa contraddizione
permette al sito EreticaMente di proclamarsi baluardo del «Libero
Pensiero», e al suo contributore Gianfranco De Turris di presentare gli
accademici evoliani come studiosi «anticonformisti». Nessuno ha il
coraggio di chiamare le cose coi loro nomi, né i fascisti, che vivono
nei loro cunicoli affermando e dissimulando, né i post-antifascisti, che
non incriminano per «dialogare».
La ricerca storica come
strumento di battaglia culturale ha senso solo se gli intellettuali
tornano a collegare le parole alle azioni, a scegliere tra valori
disumani e valori umani, a prendere posizione, a combattere e non
«dialogare» (?) con chi afferma l’etica della forza bruta. La ricerca
storica ha senso e dignità se si impara da coloro che, come i membri
dell’Anpi, hanno appreso sulla propria pelle, rischiandola, la limpida
ed altissima verità per cui le parole sono vere se corrispondono alle
azioni. Vogliamo che la memoria non sia una formula retorica, un puro
rito? Agiamo. Uniamoci all’Anpi per ampliare l’inventario di scritti e
posizioni che debbono essere perseguiti per apologia del nazifascismo,
compiliamo insieme il dossier, impediamo il risorgere di questi principi
con gli strumenti legali – qui si che la legge è sostanza — di cui uno
stato di diritto faticosamente nato dalle ceneri di quei regimi si è
dotato: facciamolo per il nostro presente, per il senso delle nostre
parole.