Il Sole 28.1.16
L’Europa e l’Ulisse che non c’è
di Carlo De Benedetti
Il
2017 sarà l’anno del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma,
speriamo che non sia l’ultimo. Una provocazione? Può darsi. Ma di questo
passo i prossimi 24 mesi potrebbero davvero essere quelli della fine
del sogno europeo.
Entriamo in una fase cruciale, ogni segnale è
negativo, eppure ai vertici politici dei Paesi dell’Unione sembra
mancare del tutto la percezione di quanto sia a rischio la costruzione
che ha assicurato all’Europa il più lungo periodo di pace della sua
storia.
La moneta unica (malgrado gli errori nella gestione del
cambio) e l’abolizione delle frontiere interne sono state da un
ventennio il modo in cui l’Europa è entrata positivamente nelle nostre
vite. Non trovare una sbarra ai confini ha fatto coincidere l’idea di
libertà e l’idea di Europa. Non dover cambiare la propria moneta era un
segno di unità che andava oltre l’economia.
Oggi l’una e l’altra
sono rimesse in discussione, tra paure irrazionali, egoismi, demagogia
dei leader, ignoranza di tanti. Ritornano gli spiriti nazionali. Ogni
governante è attento alla propria coperta, a tirarla nella giusta misura
per non lasciare a freddo i propri piedi. Ogni solidarietà tra europei
sembra persa.
In questa situazione ci avviamo a un 2017 che sarà
dominato dal referendum su Brexit, le elezioni francesi, quelle
tedesche, un nuovo Presidente americano e in Italia un dopo-referendum
difficile e carico di tentazioni elettorali. Che ne sarà dell’Europa?
L’ipotesi
di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione è ormai data come una
possibilità molto concreta. In Germania ampi settori dell’establishment
ne sono convinti e si stanno preparando a questa eventualità. L’Europa
sarà più sola. Con gli Stati Uniti che, dopo le presidenziali,
potrebbero accentuare il loro isolazionismo. Più forte sarà sul cuore
dell’Europa la pressione dei Paesi dell’Est, con la loro deriva verso
l’estrema destra. La Francia, sotto la minaccia del terrorismo
internazionale, si troverà a fronteggiare nelle urne il rischio Le Pen,
in uno scenario politico che non lascia intravedere personalità
politiche dalla visione lungimirante. La stessa Germania andrà a un voto
denso di incognite, impaurita, con la popolarità della Cancelliera in
caduta, ma senza alternative. Eppoi l’Italia, con la possibile sfida tra
Renzi e un populismo antieuropeo crescente, un populismo pericoloso, ma
non senza un fondamento di fronte a un’Unione che ha da troppo tempo si
fa sentire solo con la faccia di una burocrazia distante e di
incomprensibili vincoli numerici.
Quando, dove, abbiamo sbagliato?
Abbiamo
sbagliato quando ci siamo allontanati dal disegno originario, che aveva
una sua coerenza e una sua logica. Il disegno di un percorso a tappe,
con la progressiva dissoluzione degli Stati nazionali, che avrebbero
dovuto progressivamente cedere sovranità verso l’alto, verso un governo
politico dell’Europa, e verso il basso, verso le regioni, vera patria
per molti europei. Per anni questo disegno è progredito. L’idea di
Europa ha preso quota, per quanto sghembo possa essere sempre stato il
suo volo. Un volo incerto, esposto ad ogni refolo di vento, come quello
dello strambo ippogrifo, mezzo cavallo e mezzo grifone. Eppure quello
strano animale è riuscito per anni a volare.
In questi anni, però,
anche quell’andatura bislacca ha esaurito la sua spinta. È successo
quando abbiamo gestito malissimo un allargamento di cui non abbiamo
saputo valutare l’impatto. Quando abbiamo frettolosamente accolto Paesi
troppo diversi, economicamente e politicamente, dal nucleo originario
dell’Europa, senza adeguare il modo di funzionare dell’Unione.
Per
la verità abbiamo provato a cambiare. Abbiamo fatto lavorare i nostri
uomini migliori al progetto della Costituzione europea, da Valery
Giscard d’Estaing a Giuliano Amato, ma gli abbiamo poi posto tali e
tanti vincoli da rendere il loro lavoro incomprensibile, più vicino a un
nuovo Trattato che a una vera Costituzione.
Abbiamo fatto di
tutto per allontanare gli europei da un’idea positiva di Europa. E
quando poi è arrivata la grande crisi, la depressione economica con
l’erosione ovunque dei posti di lavoro e delle garanzie sociali, ogni
Stato ha voluto riprendersi le leve della politica.
Proprio nel
momento in cui serviva una politica europea, in grado di muovere leve
potenti nello scacchiere dell’economia globalizzata, la miopia dei
governi nazionali è tornata a far pesare le proprie ragioni e i propri
condizionamenti. L’Europa intergovernativa è diventata l’unica
possibile. A Bruxelles è stata lasciata solo la burocrazia, i capi di
gabinetto, i tecnici più o meno fedeli agli Stati di provenienza. Il
volo europeo è arrivato così al capolinea.
Non c’è da
sorprendersi, perciò, se oggi tornano i confini nazionali, se si alzano i
ponti levatoi, se i nazionalismi si materializzano nella manifestazione
più evidente della frammentazione. Non c’è da sorprendersi, ma c’è da
sperare che davanti al baratro le leadership politiche europee sappiano
ritrovare una via comune. Andare verso il 2017, con tutte le sue
scadenze politiche, come se fosse business as usual è un pericolo troppo
grande.
Questa Europa, fatta di egoistiche politiche nazionali e
di burocrazia comune, non reggerà ai passaggi cruciali del prossimo
anno. Mai come oggi è essenziale riprendere quel disegno originario
fatto di un governo politico davvero comune e di un regionalismo in
grado di difendere le identità locali. Un modello in grado di tenere
insieme l’esigenza di leve abbastanza potenti da poter gestire i grandi
fenomeni globali e la necessità di dare rappresentanza all’anima
regionale dei popoli europei.
Ma perché questo avvenga servirebbe
innanzitutto una consapevolezza diffusa del bivio a cui siamo arrivati e
dei rischi che scelte sbagliate possono comportare. Avevamo, abbiamo
ancora, l’Europa, rischiamo di ritrovarci invece con Stati nazionali non
vitali, demograficamente stanchi, tesi alla mera conservazione di quel
po’ di benessere che gli rimane.
Purtroppo la consapevolezza di
questo pericolo non riesce ad emergere, schiacciata com’è sotto un coro
di rivendicazioni egoistiche e di cinismo politico. Scelte difensive,
rinunciatarie. Ma noi siamo diventati quello che siamo perché un giorno
Ulisse si confrontò con il mare aperto, con i suoi rischi e le sue
opportunità, senza rinchiudersi nella piccola Itaca. Se noi alziamo i
muri delle vecchie nazioni non ci costruiremo un futuro migliore, ma
solo un inesorabile declino. Di novelli Ulisse però intorno a noi non ne
vedo. E il 2017 è sempre più dietro l’angolo.