domenica 24 gennaio 2016

Il Sole 24.1.16
Modigliani, Nobel 1985
Il maestro che sapeva far amare l’economia
Univa rigore scientifico e passione civile
di Fabrizio Galimberti

Riprendiamo a scorrere i premi Nobel dell’economia. Siamo arrivati al 1985, quando il riconoscimento fu assegnato a Franco Modigliani, l’unico italiano che finora lo abbia vinto. Il che non vuol dire che gli italiani abbiano contribuito poco all’economia. I premi Nobel delle scienze sono stati assegnati dal 1901, ma quello dell’economia solo dal 1969. Se il premio per l’economia fosse stato assegnato dall’inizio del Novecento, come gli altri, più di un italiano se lo sarebbe meritato: per esempio, Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni, Piero Sraffa... Ma veniamo a Modigliani. Come ha contributo il Nostro alla scienza economica?
La prima cosa da dire è che è stato un grande insegnante. Questo non ha molto a che fare con la teoria, ma la grandezza di un economista si misura anche sulla capacità di trasmettere l’amore per la materia, di allevare studenti, di farli lavorare con generosità, al punto di farli co-autori di tanti articoli accademici...
Modigliani è ricordato, e ha meritato il Nobel, per due filoni fondamentali di ricerca. Il primo riguarda la cosidetta teoria del “ciclo vitale” del consumo. Il secondo ha a che fare con la teoria della finanza societaria, e segnatamente del finanziamento – con capitale di rischio e/o capitale di debito – di una società.
Vediamo il primo contributo. Una prima formulazione del rapporto fra reddito e consumi dice che quando uno ha un reddito più alto, risparmia di più: soddisfatti i bisogni di base gli resta un bel po’ di reddito, e una maggior parte di questo va ai rispami (mentre i poveri, che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, risparmiano poco o nulla). Questa proposizione di buon senso non trovava però riscontro nei fatti: i fatti dicevano che la propensione al risparmio rimane all’incirca eguale in un Paese che si sviluppa, e in cui tutti diventano quindi – chi più e chi meno – più ricchi o meno poveri. Modigliani propose una spiegazione più articolata: disse che la gente distribuisce il consumo durante la vita (il ciclo vitale1), risparmiando di più quando lavora, così da poter mantenere lo stesso livello di consumi quando, al termine della vita lavorativa, avranno meno reddito. Insomma, il reddito tende ad avere alti e bassi, ma il consumo rimane relativamente costante. Come fa lo scoiattolo, che accumula noci e cibarie durante il periodo attivo, così da poter continuare a consumare durante la “quiescenza” dell’inverno.
Come molte altre affermazioni della scienza economica, questa sembra essere una conclusione di buon senso, ma un economista non si accontenta del buon senso: lo vuole razionalizzare, e Modigliani – assieme al suo studente Richard Brumberg (che morì immaturamente) – dimostrò che l'utilità del consumo viene massimizzata quando questo venga distribuito nel tempo secondo quella teoria dei ciclo vitale.
Passando dal micro al macro le cose si complicano: il risparmio (il non-consumo), a livello aggregato, dipende anche dalla demografia, cioè dalla struttura per età della popolazione, dalla vita media, e dall’esistenza di “risparmio forzoso” (i contributi per le pensioni).
L'altro grande contributo di Modigliani sta, abbiamo detto, nella teoria della finanza societaria. Insieme a Merton Miller (di cui parleremo un giorno, dato che ebbe il premio Nobel dell’economia nel 1990) sviluppò il cosidetto teorema Modigliani-Miller (MM), che afferma una semplice cosa: il valore di un’azienda, dice il teorema, non dipende da come l’azienda è finanziata; è lo stesso quali che siano le proporzioni fra capitale di rischio (conferito dai soci o dagli azionisti) e capitale di debito (conferito da prestiti bancari od obbligazionari). Anche qui, c’è una spiegazione intuitiva. Il valore di un’azienda dipende essenzialmente dai profitti che svilupperà in futuro: il valore di un’azione che comprate in Borsa – per esempio, un’azione della Fiat o della Siemens – non è altro, a parte i passeggeri mal di pancia (o le euforie) delle Borse, che una rappresentazione, riportata a oggi, di tutti i futuri profitti che quella società realizzerà, da qui al giorno del Giudizio. Se il valore di un’azienda dipende dai profitti futuri, che cosa importa se quell’azienda finanzia le proprie necessità di capitale con capitale di rischio o di debito?
Messa così, la conclusione sembra essere di buon senso, ma andava contro l’impressione corrente secondo la quale finanziarsi col debito non è “bello”: meglio finanziarsi col capitale di rischio. Ma Modigliani e Miller dimostrarono matematicamente che le cose stanno proprio così. Se si ignorano complicazioni – come l'esistenza di impo€ste e di costi del fallimento – il valore di un’azienda è lo stesso, quale che sia la proporzione – capitale di rischio o di debito – del suo finanziamento. Se un’azienda si indebita molto, dovrà pagare un tasso più alto: aumenta il rischio per chi fornisce i soldi. Sarebbe meglio, allora ricorrere al finanziamento dei soci? No, perché un’azienda indebitata vede alzarsi anche il costo del capitale di rischio, cioè il rendimento che i sottoscrittori di azioni richiedono per aumentare il capitale, appunto, di rischio.
Merton Miller, il co-autore del teorema, lo spiegò così: «Pensate alla società come a una grossa vasca di latte intero. L’allevatore può vendere il latte così com’è. Oppure può separare la crema, e venderla a un prezzo superiore a quello di una stessa quantità di latte.... Ma, naturalmente, così gli rimarrebbe un latte con minore contenuto di grasso, che varrebbe di meno (il che corrisponde al caso di un’azienda che ha meno capitale di rischio – la crema – e più capitale di debito – il latte “leggero”). Il teorema MM dice che, se non ci sono costi di separazione (della crema dal latte) e non ci sono interferenze fiscali, la crema più il latte leggero finisce con l'ottenere lo stesso prezzo che si sarebbe ricavato vendendo il latte intero».