Il Sole 23.1.16
La ridotta di Schengen
di Adriana Cerretelli
«Non
è Schengen ma l’Europa che può morire se passa l’idea che è incapace di
proteggere le sue frontiere esterne. D’altra parte l’Europa non può
accogliere tutti i rifugiati, altrimenti le sue società ne sarebbero
totalmente destabilizzate».
A dirlo ieri non sono stati né il
presidente ungherese Victor Orban né il nuovo dominus della Polonia
nazionalista, Jaroslav Kaczynski, le due bestie nere dell’Unione.
Quelle
frasi sono state pronunciate nientemeno che da un primo ministro
socialista, il francese Manuel Valls. Effetto Marine Le Pen? Anche. Ma
non solo. Ormai l’emergenza rifugiati è arrivata a mordere ovunque i
nervi scoperti della politica incalzata da opinioni pubbliche stressate e
disorientate. Apparentemente c’è solo Angela Merkel in Germania a
tentare di resistere agli istinti nazionalisti e isolazionisti che
dilagano da Nord a Est. Fino a quando?
Secondo Frontex l’anno
scorso hanno varcato la frontiera europea 1,83 milioni di rifugiati,
contro i 238.500 del 2014, anche se «il numero non è del tutto esatto
perché alcuni sono stati contati due volte»: in Grecia ne sono comunque
entrati 880mila, in Italia 157mila, in Germania oltre 1,1 milioni.
Ancora
più allarmanti le cifre fatte dal premier olandese Mark Rutte: nelle
prime tre settimane di gennaio sono già arrivati in 35mila quando nel
2015 in tutto il mese erano stati 1.600. L’inverno non ferma più i
disperati. I quali, per sfuggire ai crescenti blocchi europei, ora
tentano anche la rotta polare, puntando alla Russia per raggiungere
Norvegia o Finlandia: ci sono riusciti in 900 l’anno scorso.
I
flussi non si fermano. L’Europa non riesce a fare quadrato per gestirli,
quindi li subisce disordinatamente. I Paesi più esposti, allora,
corrono ai ripari in proprio. La Svezia, il Paese più aperto della Ue, è
stata la prima ad alzare il ponte levatoio. Ora l’Austria, 8,5 milioni
di abitanti, non si limita a sospendere Schengen, come Francia,
Germania, Svezia Danimarca e Norvegia, ma ha deciso di imporre un tetto
agli arrivi, più che dimezzati rispetto al 2015: 37.500 persone contro
90mila.
La Danimarca spinge ben oltre le misure restrittive già
adottate: il Parlamento l’altro ieri ha approvato la legge che prevede
di confiscare ai rifugiati qualsiasi bene di valore superiore ai 1.340
euro, contanti compresi, per finanziarne le spese di mantenimento.
Baviera, Baden-Württemberg e Svizzera si preparano a fare lo stesso. La
Francia ha prolungato ieri lo stato di emergenza (frontiere chiuse
comprese) fino a quando… l’Isis non sarà stata sconfitta.
Dopo i
fatti di Colonia, gli umori in Germania si sono irrigiditi: si vogliono
prolungare a tempo indeterminato i controlli alle frontiere. Del resto a
Bruxelles, in attesa della creazione nel 2018 (ammesso che venga
approvata) di una guardia di frontiera europea dotata di 1.500 uomini da
affiancare alle strutture nazionali, si ipotizza il congelamento
dell’area Schengen per due anni: ne discuteranno i 28 ministri
dell’Interno Ue lunedì ad Amsterdam.
Il provvedimento sembra
inevitabile. Nonostante il “tradimento” dell’Austria la metta in
difficoltà con il partito in Baviera, che vorrebbe bloccare a 200mila
all’anno il numero dei rifugiati da accogliere in Germania, la Merkel
continua a rifiutare l’idea del tetto, pur ribadendo l’impegno a ridurre
«sensibilmente» i flussi. Per evitare la tagliola, il cancelliere
scommette tutto sulla Turchia: con un pacchetto di aiuti Ue da 3
miliardi spera di convincerla a cogestire l’emergenza disincentivando le
partenze verso l’Europa degli oltre 2,2 milioni di profughi siriani e
irakeni che ospita.
Scommessa dall’esito incerto: non tanto perchè
l’Italia per ora non dà il necessario via libera all’accordo, quanto
perché proprio ieri in visita a Berlino, dopo l’incontro con Merkel, il
premier turco Ahmet Davutoglu ha chiarito che «3 miliardi sono un gesto
di buona volontà europea ma sono insufficienti a condividere l’onere di
una crisi che non si sa quanto durerà, che alla Turchia è già costata 9
miliardi, che la Turchia non ha esportato ma che è stata esportata in
Turchia».
Si sussurra che Ankara pretenda in realtà 3 miliardi
all’anno per collaborare seriamente. Ed è forse anche per questo che
Wolfgang Schaüble, il ministro delle Finanze tedesco, dopo aver
ventilato la possibilità di un’euro- tassa sulla benzina per finanziare
l’alleanza con il Paese di Erdogan, ora lancia l’idea di un piano
Marshall plurimiliardario per risolvere il problema rifugiati “in loco”.
Con i soldi di chi?
Se continuerà a essere del tutto sgovernata,
come è stato finora, questa crisi finirà per sfasciare l’Europa. Già la
sospensione di Schengen per due anni e il ripristino dei controlli in
dogana avrebbero costi proibitivi per una ripresa anemica: nell’area
circolano 60 milioni di Tir all’anno, 1,7 milioni di lavoratori
transfrontalieri e oltre 200 milioni di viaggiatori. Costerebbe di
sicuro molto meno soddisfare tutte le più esose richieste turche.
Per
evitare il peggio bisognerebbe riuscire in due mesi a fare quello che
non è riuscito negli ultimi sei: intesa sulle quote di riallocazione
intra-Ue dei rifugiati, sulla riforma di Dublino, su hotspot e guardia
di frontiera europea. Realistico?