sabato 23 gennaio 2016

Il Sole 23.1.16
La rivolta in Tunisia a 5 anni dalle «primavere»
di Ugo Tramballi

Il datore di lavoro giovanile di maggior successo in Medio Oriente di questi tempi è l’Isis: assorbimento illimitato di mano d’opera locale ed estera, uno stipendio che nessun ingegnere arabo al primo impiego potrebbe sognare. Kalashnikov gratis, matrimonio e alloggio assicurati. E in caso di morte sul lavoro, garanzia del paradiso. Non è chiaro se quella di Naguib Sawiris ai Dialoghi mediterranei di Roma, a dicembre, fosse una battuta o solo la parabola del più grave problema della regione, a parte le guerre.
Cinque anni dopo le Primavere arabe, più di metà della popolazione – 380 milioni che nel 1990 erano 247 – ha meno di 25 anni. Secondo il Fondo monetario internazionale, in un decennio la regione deve creare 75 milioni di nuovi posti di lavoro: il 40% più di quelli già esistenti, in molti casi precari.
Nel 2010, prima delle grandi rivolte, la disoccupazione tunisina era al 12%. Oggi è al 15,3. Così anche nel solo Paese arabo dove continua a non essere blasfemo parlare di Primavere, quelle Primavere che lì erano incominciate, lì ritornano: al punto di partenza esattamente cinque anni dopo. Un altro giovane diplomato ma disoccupato che si suicida, manifestazioni spontanee che si diffondono nel Paese, scontri con la polizia, feriti, arresti. Il governo che offre 6mila posti di lavoro nel settore pubblico: i giovani che gridano «Lavoro, libertà, dignità». Tutto come allora, quando c’era il vecchio regime. Beji Caid Essesbi, il presidente di oggi, apparteneva al potere di prima. È un felul, come dicono gli arabi, un sopravvissuto. Ma è innegabile che oggi in Tunisia ci sia una nuova Costituzione, che il compromesso fra laici e islamisti funzioni, che ci siano state elezioni libere e trasparenti.
Ma i giovani si rivoltano come quando non c’era nulla di tutto questo. Una generazione intera di diplomati e laureati che dovrebbe già essere classe media, sono invece i morti di fame del loro Paese. In qualche modo la democrazia, la mancanza di quella repressione che era il dato più caratteristico dei regimi spazzati via o indeboliti dalle Primavere, rende più evidente il fallimento economico tunisino. E i terroristi ne accentuano la gravità colpendo ripetutamente il turismo, la fonte più importante di reddito e occupazione nel Paese.
Come già accade in Libia ripensando a Gheddafi, in Iraq con Saddam e in Siria con Assad (lì il dittatore resiste nonostante sia uno dei principali responsabili del massacro), i nostalgici del vecchio Medio Oriente autoritario ma più sicuro, penseranno che anche in Tunisia si stava meglio quando si stava peggio. È una forma contemporanea di quell’orientalismo pieno di stereotipi che aveva messo a nudo Edward Said, arabo e filosofo alla Columbia University di New York.
Democrazia impossibile, dunque, o solo rimandata, considerando le Primavere come un processo di lunga durata e non un fatto di cronaca del Medio Oriente? Cinque anni dopo, l’outloock regionale della Banca mondiale (“Inequality, Uprising and Conflict in the Arab World”) ha cercato di dare una spiegazione socio-economica a ciò che è accaduto. Nel 2010 il quadro non era disastroso per la regione. Nel mondo arabo diminuiva la povertà assoluta e il potere d’acquisto del 40% più povero della popolazione era il più alto di tutte le altre regioni del mondo, ad eccezione dell’America Latina.
La Banca mondiale identifica la causa dell’esplosione nella classe media. Alla vigilia delle rivolte il suo “indice di soddisfazione” era bassissimo. Percepiva un peggioramento degli standard di vita, dell’occupazione, della burocrazia, dell’opacità e della corruzione del potere. I sistemi educativi erano mediocri e i governi non facevano riforme. Il sistema delle sovvenzioni che impegnava una parte importante dei Pil – nel 2012 il 22% delle risorse pubbliche del mondo arabo era drenato solo dai sussidi all'energia – avvantaggiava momentaneamente le categorie più povere. Ma scoraggiava l’iniziativa privata della classe media. In molti Paesi è venuto meno quel contratto sociale del mondo arabo, nel quale lo Stato garantiva il benessere e la gente sosteneva lo Stato, rinunciando a partecipazione e rappresentatività politica.
È la spiegazione del grande disordine? Nel 2011, prima che forme malate di Islam e di geopolitica giocassero la loro occasione, in tutto il Medio Oriente arabo erano state finanziate 65 startup: in Israele 546. L’interscambio regionale era l’8’7% del totale dei commerci: in Europa era il 63,7 e nell’Asia-Pacifico il 66,8. Sono queste le radici del disastro.