il manifesto
Una stella tranquilla, ritratto sentimentale di Primo Levi
Giornata
della Memoria. Intervista a Pietro Scarnera autore della graphic novel
sulle tracce di vita e di pensiero di uno degli scrittori più amati
di Virginia Tonfoni
Sono
passati quasi trent’anni dal giorno di aprile in cui Primo Levi si
tolse la vita, gettando un’ombra tetra sulla propria opera e alimentando
le letture che l’hanno considerata troppo a lungo come una profonda e
lunga testimonianza del lager; un’ombra che spesso ha oscurato in parte
il suo spessore di scrittore. È una fortuna che in questi ultimi anni
siano fiorite riflessioni e approfondimenti sul suo operato letterario, e
che si proceda da diverse parti al riscatto di uno più significativi
autori italiani del secolo scorso. Lo fa Marco Belpoliti, con Primo Levi
di fronte e di profilo, ma in questa linea si collocava già il graphic
novel di Pietro Scarnera Una stella tranquilla, ritratto sentimentale di
Primo Levi (Comma22, 2013). Il libro è candidato quest’anno nella
Selezione ufficiale del festival di Angoulème, che si celebrerà a fine
mese. Scarnera, al suo secondo fumetto come autore unico e membro della
redazione di graphic-news.com (primo portale italiano di informazione a
fumetti), ha risposto alle nostre domande.
Cosa ti ha avvicinato, da lettore, a Primo Levi, uomo e autore?
La
mia copia di Se questo è un uomo risale ai tempi della scuole medie, ma
è stato proprio un fumetto — ovviamente Maus, di Art Spiegelman — a
spingermi a riaprirla, molti anni dopo. In quell’edizione c’era anche La
tregua, il secondo libro di Levi, ma soprattutto un’appendice in cui
Levi rispondeva alle domande più comuni ricevute dagli studenti delle
scuole. Mi colpì la chiarezza, la curiosità e a tratti l’ironia con cui
affrontava argomenti terribili. Di seguito ho letto tutti gli altri
libri, comprese le interviste, scoprendo uno scrittore molto più ricco
di quello che avevo immaginato fino ad allora. Mi sono chiesto diverse
volte il motivo di questa mia piccola ossessione per Levi. Da un lato
penso che ci sia qualcosa di familiare nel suo modo di raccontare, mi ha
sempre ricordato i racconti di mio nonno, anche lui prigioniero in
Germania durante la guerra (ma come soldato italiano). In quel periodo
mio padre si trovava in stato vegetativo (come ho raccontato nel mio
primo fumetto, Diario di un addio)e forse mi attirava la capacità di
Levi di testimoniare un’esperienza estrema.
Il sottotitolo del tuo
romanzo grafico recita «ritratto sentimentale». Che tipo di sentimento
verso la figura di Primo Levi ti ha convinto ad affrontare la sua
biografia in forma fumetto?
L’aggettivo non si riferisce tanto a
dei sentimenti verso la figura di Levi, quanto all’approccio che ho
scelto per avvicinarmi a lui. L’idea era quella di porsi come un ideale
nipote, che tenta di ricostruire la vita e soprattutto l’opera dello
scrittore, come se sfogliasse un album di famiglia, immaginandosi
com’era da giovane, com’erano andati alcuni episodi raccontati nei
libri, etc. Una stella tranquilla può essere anche visto come una
riflessione sulla memoria che conserviamo di Primo Levi, a tanti anni
dalla sua morte. E del resto una domanda sembra emergere sempre
dall’opera di Levi, soprattutto negli ultimi lavori: sono riuscito a
testimoniare? Mi credete? Il fumetto era anche un modo per dire che sì,
gli crediamo, che ha raggiunto il suo scopo: i suoi libri funzionano
ancora oggi.
Il nome di Marco Belpoliti, uno dei massimi studiosi
dell’opera di Primo Levi appare nel prologo-di cui è autore– e nei
ringraziamenti. In che modo ti ha condizionato la lettura dei testi da
lui curati?
Ho pensato che sarebbe stata una buona idea raccontare
la storia di Primo Levi dopo aver letto da cima a fondo i due volumi
delle Opere, curati appunto da Marco Belpoliti. Nelle note Marco
ripercorreva la storia dietro ogni libro, praticamente dandomi una
traccia da seguire per il mio lavoro. Avere una sua prefazione è stato
per me molto rassicurante; evidentemente non avevo scritto cose assurde.
Non aver ancora letto Primo Levi di fronte e profilo, ma sono molto
curioso di vedere la mostra «I mondi di Primo Levi», che dopo una prima
tappa torinese, inaugura a Ferrara il 24 gennaio.
Nel tuo libro
due giovani personaggi portano avanti la ricostruzione della vita di
Levi dopo la sua liberazione. Quanto vi è di autobiografico in questa
cornice narrativa e perché hai scelto questa struttura?
Mi sono
ispirato a Palacinche di Alessandro Tota, uno dei miei fumettisti
preferiti. La cornice serve essenzialmente a far andare avanti la
storia, tuttavia molte passeggiate per Torino sono autobiografiche; ho
approfittato per raccontare come è cambiata negli anni la città dove
sono nato, soprattutto in quartieri periferici come Lingotto e
Mirafiori. La presenza dei due ragazzi si è rivelata importante: mi sono
accorto che sia in Levi sia in diversi targhe e monumenti posti a
memoria si rivolgevano ai «figli dei figli», cioè alla mia generazione,
perché sapessero, perché non dimenticassero. Ora tocca a noi portare
avanti quella testimonianza, divenire «testimoni mentali» come ha
scritto la storica Anna Bravo in una bellissima recensione, necessari a
fianco di quelli oculari: questo è quello che ho provato a fare.
Il
tuo lavoro scaturisce anche dalla consultazione meticolosa di fonti
scritte e visive. In quali direzioni di ricerca e utilizzo ti sei mosso?
Che margine di rielaborazione ti sei concesso?
Ho usato solo
materiali che tutti possono trovare in biblioteca o sul web, ed ho
lavorato con quello che effettivamente rimane dell’opera di Levi. Ho
fatto proprio un passo indietro sul testo, ho eliminato molte cose
scritte da me e ho lasciato che fossero le parole di Levi a raccontare:
tutti gli episodi che descrivo sono stati scritti o raccontati dallo
scrittore, tutte le parole che pronuncia in questo fumetto sono sue. Il
lavoro sulle immagini è stato più impegnativo: la storia che racconto è
piuttosto astratta e povera di azione-la storia di uno scrittore che
vive sempre nella stessa casa– e a un certo punto è sorto il problema di
cosa disegnare. Ho risolto rubando immagini dappertutto: alcune
provengono dall’opera di Levi, come il gufo in copertina (l’animale con
cui si identificava) e gli uomini senza volto (i «sommersi» del lager).
Spesso ho usato le fotografie, le copertine dei libri, le sculture fatte
con il filo di rame, vecchi documentari su Torino, foto scattate da me o
dai miei genitori negli anni ’70… spesso le tavole sono state costruite
attorno a queste immagini, le ho usate come ancoraggio sulla realtà. Il
problema più delicato è stato disegnare il lager. Dopo averlo
inizialmente escluso (non riesco neanche a immaginarlo, figuriamoci
disegnarlo), un’amica mi ha fatto scoprire le opere di Zoran Music, un
pittore sloveno internato a Dachau. Come Levi, Music, preso dalla
necessità di raccontare, nel lager aveva disegnato diversi schizzi,
ripresi poi anni dopo nella serie di pitture «Non siamo gli ultimi».
Questo parallelo mi ha colpito e ho deciso di «rubare» copiando i
disegni di Music nelle parti del libro in cui si parla del lager: mi
sembravano le uniche immagini che potessero avvicinarsi a quelle che
Levi doveva avere in testa.
Nel raccontare la complessità dell’uomo e dello scrittore, qual è stata la sfida più grande?
In
realtà le difficoltà più grandi le ho avute sul disegno, nel senso che
volevo trovare uno stile che in qualche modo corrispondesse a Primo
Levi. La chiarezza, la precisione e la necessità di parlare a tutti,
come «un telefono che funziona», sono elementi che caratterizzano la
scrittura di Levi: volevo che anche il disegno seguisse questi principi.
In generale, nella grande varietà di composizione delle tavole ci sono elementi e scelte ricorrenti. A cosa sono riconducibili?
Tornano
gli elementi frequenti nell’opera di Levi. Il gufo, ad esempio,
praticamente l’unico disegno fatto da Levi (anche se è fatto al
computer), torna in alcune interviste e nelle sculture di filo di rame.
Tornano anche i prigionieri senza volto e la foto di una recinzione di
filo spinato di un lager: torna nei diversi momenti della storia in cui
Levi pensa ad Auschwitz.
Con un atto di estremo rispetto, il tuo
libro non indaga sul suicidio dello scrittore e sulle ragioni che lo
hanno determinato, quasi come se fosse la complessità dell’uomo stessa a
giustificarlo. Esiste secondo te una relazione tra la pubblicazione del
suo ultimo libro «I sommersi e i salvati| e il suo gesto suicida?
Davvero
non saprei dire se esista un legame tra il ritorno alla riflessione sul
lager e il suicidio di Levi. Posso dire che le tavole sulla sua morte
sono le prime che ho pensato e disegnato, proprio per risolvere subito
la questione più delicata: un argomento al quale non mi sento in diritto
di cercare un perché. Mi interessa di più il modo in cui abbiamo
reagito alla notizia che il fatto in sé. Quando dicevo a qualcuno che
stavo lavorando a un libro su Primo Levi, il suicidio era il primo
argomento che veniva fuori: c’era chi aveva una propria idea, chi
chiedeva a me una spiegazione, chi mi raccontava delle storie. Tutte
ruotano attorno a una presunta lettera, foriera di notizie sconvolgenti,
che Levi avrebbe ricevuto la mattina dell’11 aprile 1987. Le ho
riportate in Una stella tranquilla perché per me sono vere e proprie
leggende urbane, che dimostrano come ci sia qualcosa di irrisolto nella
memoria che abbiamo di Primo Levi. Credo che tutto il dibattito nasca
dalla confusione che si è generata tra la persona e il personaggio
pubblico. In realtà basta studiare un po’ la sua opera, e soprattutto le
interviste, per accorgersi che il suicidio non era così totalmente
inaspettato. In ogni caso questa distinzione tra Levi uomo e Levi
scrittore ha guidato tutto il mio lavoro, fino al titolo e alla
copertina, dove Levi indossa appunto una maschera.