sabato 23 gennaio 2016

il manifesto
Una stella tranquilla, ritratto sentimentale di Primo Levi
Giornata della Memoria. Intervista a Pietro Scarnera autore della graphic novel sulle tracce di vita e di pensiero di uno degli scrittori più amati
di Virginia Tonfoni

Sono passati quasi trent’anni dal giorno di aprile in cui Primo Levi si tolse la vita, gettando un’ombra tetra sulla propria opera e alimentando le letture che l’hanno considerata troppo a lungo come una profonda e lunga testimonianza del lager; un’ombra che spesso ha oscurato in parte il suo spessore di scrittore. È una fortuna che in questi ultimi anni siano fiorite riflessioni e approfondimenti sul suo operato letterario, e che si proceda da diverse parti al riscatto di uno più significativi autori italiani del secolo scorso. Lo fa Marco Belpoliti, con Primo Levi di fronte e di profilo, ma in questa linea si collocava già il graphic novel di Pietro Scarnera Una stella tranquilla, ritratto sentimentale di Primo Levi (Comma22, 2013). Il libro è candidato quest’anno nella Selezione ufficiale del festival di Angoulème, che si celebrerà a fine mese. Scarnera, al suo secondo fumetto come autore unico e membro della redazione di graphic​-news​.com (primo portale italiano di informazione a fumetti), ha risposto alle nostre domande.
Cosa ti ha avvicinato, da lettore, a Primo Levi, uomo e autore?
La mia copia di Se questo è un uomo risale ai tempi della scuole medie, ma è stato proprio un fumetto — ovviamente Maus, di Art Spiegelman — a spingermi a riaprirla, molti anni dopo. In quell’edizione c’era anche La tregua, il secondo libro di Levi, ma soprattutto un’appendice in cui Levi rispondeva alle domande più comuni ricevute dagli studenti delle scuole. Mi colpì la chiarezza, la curiosità e a tratti l’ironia con cui affrontava argomenti terribili. Di seguito ho letto tutti gli altri libri, comprese le interviste, scoprendo uno scrittore molto più ricco di quello che avevo immaginato fino ad allora. Mi sono chiesto diverse volte il motivo di questa mia piccola ossessione per Levi. Da un lato penso che ci sia qualcosa di familiare nel suo modo di raccontare, mi ha sempre ricordato i racconti di mio nonno, anche lui prigioniero in Germania durante la guerra (ma come soldato italiano). In quel periodo mio padre si trovava in stato vegetativo (come ho raccontato nel mio primo fumetto, Diario di un addio)e forse mi attirava la capacità di Levi di testimoniare un’esperienza estrema.
Il sottotitolo del tuo romanzo grafico recita «ritratto sentimentale». Che tipo di sentimento verso la figura di Primo Levi ti ha convinto ad affrontare la sua biografia in forma fumetto?
L’aggettivo non si riferisce tanto a dei sentimenti verso la figura di Levi, quanto all’approccio che ho scelto per avvicinarmi a lui. L’idea era quella di porsi come un ideale nipote, che tenta di ricostruire la vita e soprattutto l’opera dello scrittore, come se sfogliasse un album di famiglia, immaginandosi com’era da giovane, com’erano andati alcuni episodi raccontati nei libri, etc. Una stella tranquilla può essere anche visto come una riflessione sulla memoria che conserviamo di Primo Levi, a tanti anni dalla sua morte. E del resto una domanda sembra emergere sempre dall’opera di Levi, soprattutto negli ultimi lavori: sono riuscito a testimoniare? Mi credete? Il fumetto era anche un modo per dire che sì, gli crediamo, che ha raggiunto il suo scopo: i suoi libri funzionano ancora oggi.
Il nome di Marco Belpoliti, uno dei massimi studiosi dell’opera di Primo Levi appare nel prologo-di cui è autore– e nei ringraziamenti. In che modo ti ha condizionato la lettura dei testi da lui curati?
Ho pensato che sarebbe stata una buona idea raccontare la storia di Primo Levi dopo aver letto da cima a fondo i due volumi delle Opere, curati appunto da Marco Belpoliti. Nelle note Marco ripercorreva la storia dietro ogni libro, praticamente dandomi una traccia da seguire per il mio lavoro. Avere una sua prefazione è stato per me molto rassicurante; evidentemente non avevo scritto cose assurde. Non aver ancora letto Primo Levi di fronte e profilo, ma sono molto curioso di vedere la mostra «I mondi di Primo Levi», che dopo una prima tappa torinese, inaugura a Ferrara il 24 gennaio.
Nel tuo libro due giovani personaggi portano avanti la ricostruzione della vita di Levi dopo la sua liberazione. Quanto vi è di autobiografico in questa cornice narrativa e perché hai scelto questa struttura?
Mi sono ispirato a Palacinche di Alessandro Tota, uno dei miei fumettisti preferiti. La cornice serve essenzialmente a far andare avanti la storia, tuttavia molte passeggiate per Torino sono autobiografiche; ho approfittato per raccontare come è cambiata negli anni la città dove sono nato, soprattutto in quartieri periferici come Lingotto e Mirafiori. La presenza dei due ragazzi si è rivelata importante: mi sono accorto che sia in Levi sia in diversi targhe e monumenti posti a memoria si rivolgevano ai «figli dei figli», cioè alla mia generazione, perché sapessero, perché non dimenticassero. Ora tocca a noi portare avanti quella testimonianza, divenire «testimoni mentali» come ha scritto la storica Anna Bravo in una bellissima recensione, necessari a fianco di quelli oculari: questo è quello che ho provato a fare.
Il tuo lavoro scaturisce anche dalla consultazione meticolosa di fonti scritte e visive. In quali direzioni di ricerca e utilizzo ti sei mosso? Che margine di rielaborazione ti sei concesso?
Ho usato solo materiali che tutti possono trovare in biblioteca o sul web, ed ho lavorato con quello che effettivamente rimane dell’opera di Levi. Ho fatto proprio un passo indietro sul testo, ho eliminato molte cose scritte da me e ho lasciato che fossero le parole di Levi a raccontare: tutti gli episodi che descrivo sono stati scritti o raccontati dallo scrittore, tutte le parole che pronuncia in questo fumetto sono sue. Il lavoro sulle immagini è stato più impegnativo: la storia che racconto è piuttosto astratta e povera di azione-la storia di uno scrittore che vive sempre nella stessa casa– e a un certo punto è sorto il problema di cosa disegnare. Ho risolto rubando immagini dappertutto: alcune provengono dall’opera di Levi, come il gufo in copertina (l’animale con cui si identificava) e gli uomini senza volto (i «sommersi» del lager). Spesso ho usato le fotografie, le copertine dei libri, le sculture fatte con il filo di rame, vecchi documentari su Torino, foto scattate da me o dai miei genitori negli anni ’70… spesso le tavole sono state costruite attorno a queste immagini, le ho usate come ancoraggio sulla realtà. Il problema più delicato è stato disegnare il lager. Dopo averlo inizialmente escluso (non riesco neanche a immaginarlo, figuriamoci disegnarlo), un’amica mi ha fatto scoprire le opere di Zoran Music, un pittore sloveno internato a Dachau. Come Levi, Music, preso dalla necessità di raccontare, nel lager aveva disegnato diversi schizzi, ripresi poi anni dopo nella serie di pitture «Non siamo gli ultimi». Questo parallelo mi ha colpito e ho deciso di «rubare» copiando i disegni di Music nelle parti del libro in cui si parla del lager: mi sembravano le uniche immagini che potessero avvicinarsi a quelle che Levi doveva avere in testa.
Nel raccontare la complessità dell’uomo e dello scrittore, qual è stata la sfida più grande?
In realtà le difficoltà più grandi le ho avute sul disegno, nel senso che volevo trovare uno stile che in qualche modo corrispondesse a Primo Levi. La chiarezza, la precisione e la necessità di parlare a tutti, come «un telefono che funziona», sono elementi che caratterizzano la scrittura di Levi: volevo che anche il disegno seguisse questi principi.
In generale, nella grande varietà di composizione delle tavole ci sono elementi e scelte ricorrenti. A cosa sono riconducibili?
Tornano gli elementi frequenti nell’opera di Levi. Il gufo, ad esempio, praticamente l’unico disegno fatto da Levi (anche se è fatto al computer), torna in alcune interviste e nelle sculture di filo di rame. Tornano anche i prigionieri senza volto e la foto di una recinzione di filo spinato di un lager: torna nei diversi momenti della storia in cui Levi pensa ad Auschwitz.
Con un atto di estremo rispetto, il tuo libro non indaga sul suicidio dello scrittore e sulle ragioni che lo hanno determinato, quasi come se fosse la complessità dell’uomo stessa a giustificarlo. Esiste secondo te una relazione tra la pubblicazione del suo ultimo libro «I sommersi e i salvati| e il suo gesto suicida?
Davvero non saprei dire se esista un legame tra il ritorno alla riflessione sul lager e il suicidio di Levi. Posso dire che le tavole sulla sua morte sono le prime che ho pensato e disegnato, proprio per risolvere subito la questione più delicata: un argomento al quale non mi sento in diritto di cercare un perché. Mi interessa di più il modo in cui abbiamo reagito alla notizia che il fatto in sé. Quando dicevo a qualcuno che stavo lavorando a un libro su Primo Levi, il suicidio era il primo argomento che veniva fuori: c’era chi aveva una propria idea, chi chiedeva a me una spiegazione, chi mi raccontava delle storie. Tutte ruotano attorno a una presunta lettera, foriera di notizie sconvolgenti, che Levi avrebbe ricevuto la mattina dell’11 aprile 1987. Le ho riportate in Una stella tranquilla perché per me sono vere e proprie leggende urbane, che dimostrano come ci sia qualcosa di irrisolto nella memoria che abbiamo di Primo Levi. Credo che tutto il dibattito nasca dalla confusione che si è generata tra la persona e il personaggio pubblico. In realtà basta studiare un po’ la sua opera, e soprattutto le interviste, per accorgersi che il suicidio non era così totalmente inaspettato. In ogni caso questa distinzione tra Levi uomo e Levi scrittore ha guidato tutto il mio lavoro, fino al titolo e alla copertina, dove Levi indossa appunto una maschera.