mercoledì 20 gennaio 2016

Il Sole 20.1.16
L’Italia di lotta e il caos europeo
di Adriana Cerretelli

L’Europa brucia: tra meno di due mesi Schengen potrebbe diventare solo un ricordo, ha avvertito ieri davanti all’Europarlamento il polacco Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue. Continuare a giocare con il fuoco in un’Unione in stato di precarietà e nazionalismi crescenti per l’Italia potrebbe rivelarsi una scelta più che autolesionistica. Mortale.
Scintille Roma-Bruxelles, attacchi e contrattacchi Renzi-Juncker, Renzi-Merkel e viceversa, si sa, non vanno mai soli. «Quando, sulla vicenda dei rifugiati, non è disposta a dare aiuti alla Turchia se non in cambio di contropartite, l’Italia danneggia l’Europa intera. Renzi ne sta mettendo a repentaglio forza e credibilità internazionali a vantaggio del populismo»: appaiono di miele le recenti critiche al premier da parte del presidente della Commissione Ue a confronto delle parole pronunciate a Strasburgo dal tedesco Manfred Weber, capogruppo dei popolari del Ppe.
Parole politicamente pesantissime. Se le intemperanze di Juncker, un caratteriale, si potevano anche attribuire a un personale scatto di malumore, l’intervento di Weber no, è stato preparato e quasi certamente ispirato dalla cancelleria di Berlino. «Sono tedeschi: se gli dichiari guerra, quelli poi la fanno davvero. Ma per farla ci vogliono truppe e alleati. Non si può fare a mani nude e solo per ragioni di politica interna. Altrimenti poi ti schiacciano», commentava qualcuno.
È vero che l’Italia non è un peso piuma, uno Stato membro del quale ci si potrebbe facilmente sbarazzare senza pagarne un gran prezzo. Come è vero che molte delle sue rivendicazioni, dalla flessibilità alla bad-bank, a una politica economica più orientata a sviluppo e occupazione fino a un nuovo approccio comune all’emergenza rifugiati, anche se scomode non sono tutte e solo pretestuose. Anzi.
Ma è altrettanto vero che i problemi si risolvono più facilmente, come del resto fanno tutti, con metodo negoziale e riservatezza, evitando confronti gridati e soprattutto le prime pagine dei giornali. La regola vale tanto più oggi nell’Europa che si sgretola in disordinati bilateralismi che al massimo riescono ad esprimersi per piccole e mirate squadre intergovernative, dove l’autoreferenzialità paga solo i pesi massimi, purché credibili e muniti di solide alleanze al seguito, euro-istituzionali e non.
Le crociate solitarie hanno sempre funzionato poco, anche quando l’Unione era una vera comunità. Nell’attuale, incarognita dalla logica dell’ognun per sé e l’Ue per nessuno, l’isolamento rischia di trasformarsi nel trampolino sul buio.
Il caos dell’ultimo anno non potrà durare a lungo senza infliggere danni perenni all’impresa collettiva, desertificando le conquiste dell’integrazione. Già oggi il bilancio è allarmante: a furia di privilegiare i criteri economici della convivenza europea a scapito di quelli politico-democratico-culturali, in breve dei suoi valori fondamentali, non solo si penalizza la crescita ma si distrugge a poco a poco il consenso dei popoli al progetto europeo.
Guardando indietro la Grecia appare per molti aspetti la madre di tutte le crisi che sono seguite: è stato allora che lo spirito europeo è morto, la solidarietà è saltata per essere malamente ripescata in extremis e solo per tenere in vita l’euro. Allora fu il gran duello Nord-Sud. Con la marea inarrestabile dei rifugiati, la contesa da Nord-Sud è diventata Est-Ovest con il rifiuto generalizzato a venirsi incontro, il rifugio illusorio dietro i nuovi muri eretti nella grande Europa nata dalla caduta di quello di Berlino. Preistoria.
Tutti contro tutti oggi, al punto da imporre l’outsourcing senza complessi della gestione dell’emergenza profughi nella Turchia di Erdogan, regno dell’ambiguità dove ogni giorno si stracciano i valori fondamentali di libertà e rispetto della persona propri della cultura europea per abbracciare una reislamizzazione sempre più conclamata, che non disdegna la riscoperta di “Mein Kampf”, il breviario di Adolf Hitler.
Se questa è Europa, la leadership collettiva diventa impossibile, l’erosione delle leadership nazionali inevitabile. La Francia di Hollande, evanescente, è solo preoccupata di fermare la corsa di Marine Le Pen. Dopo le elezioni di dicembre, la Spagna di Rajoi è più morta che viva. La Polonia è risucchiata nel nazionalismo conservatore del partito di Kaczynski tornato al potere. Dopo i fatti di Colonia, in Germania Angela Merkel appare indebolita e disorientata, sulla difensiva in casa e in Europa. Dove con sempre più insistenza si sognano mini-integrazioni, club più piccoli e culturalmente coesi per ritrovare il filo perduto di un’Europa non di lotta ma di governo secondo nuovi progetti comuni. Impresa difficile ma non impossibile. Se non vuole farsi del male, l’Italia non deve autoemarginarsi. Soprattutto non può restare alla finestra ululando alla luna.