martedì 19 gennaio 2016

Il Sole 19.1.16
Perché il prezzo del petrolio crolla e quello della benzina no?
Il costo del barile di petrolio è crollato dell'80% dai massimi del 2008 e di oltre il 40% negli ultimi tre mesi, il prezzo alla pompa poco più del 30% dai massimi di qualche anno fa e circa il 15-20% negli ultimi mesi
di Maximilian Cellino
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-01-18/il-prezzo-petrolio-e-quello-benzina--170114.shtml?uuid=ACUtjQCC&nmll=2707

lI Sole 19.1.16
La Caporetto demografica: nel 2015 «scomparse» dall’Italia 150mila persone. Non avveniva dal 1917
di Enrico Marro
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-01-18/la-caporetto-demografica-2015-scomparse-dall-italia-150mila-persone-non-avveniva-1917-171242.shtml?uuid=ACJabSCC

il manifesto 19.1.16
Cgil, ecco la Carta dei diritti universali
Susanna Camusso presenta la proposta di un nuovo Statuto dei lavoratori: dovrà diventare una legge, a cui verranno accoppiati dei referendum
«Ma non è una crociata solo contro il Jobs Act»
Riposo, maternità, equo compenso e ammortizzatori per tutti, indipendentemente dal tipo di contratto. La consultazione degli iscritti e il confronto con Cisl, Uil e associazioni
di Antonio Sciotto

Si chiama Carta dei diritti universali del lavoro, e rappresenta, nei progetti della Cgil, il nuovo Statuto per i lavoratori del futuro: 97 articoli in 64 pagine che dovrebbero diventare una proposta di legge di iniziativa popolare. Il concetto chiave, come ha spiegato ieri la segretaria Susanna Camusso in una conferenza stampa tenuta ineditamente davanti alla stazione Termini, è quello di «regolare i diritti non più in base alla tipologia contrattuale, ma definendoli per tutte le persone che lavorano, qualsiasi rapporto abbiano». Dipendenti a tempo indeterminato o determinato, partite Iva, collaboratori dei tipi più vari, tutti dovranno godere di un corredo di diritti unico e universale, che verranno magari poi usufruiti in maniera diversa a seconda dei casi.
Per sostenere la sua proposta, la Cgil ha indetto una consultazione straordinaria delle iscritte e degli iscritti, «che per la prima volta nella sua storia — ha spiegato Camusso — non riguarda un accordo o un contratto, ma la direzione politica e strategica della confederazione». I tesserati verranno chiamati a esprimersi — attraverso assemblee nei luoghi di lavoro e nelle leghe pensionati — sul testo, ma nel frattempo «vorremmo aprire — ha proseguito la segretaria Cgil — un dibattito più vasto possibile, con le associazioni dei lavoratori autonomi, gli intellettuali e i giuristi, con Cisl e Uil. E naturalmente ci confronteremo con la politica», anche perché l’augurio è quello che prima o poi la legge arrivi a essere discussa appunto in Parlamento.
Camusso ha comunque sottolineato il carattere «autonomo» della proposta di legge, slegata dai partiti e puramente “cigiellina”: a maggior ragione per il fatto che la Carta verrà accompagnata (se gli stessi iscritti lo approveranno con la consultazione) da una serie di quesiti referendari «che puntano ad abrogare tutte le norme che negli ultimi anni hanno destrutturato e diminuito i diritti del lavoro». «Non si deve fare l’equazione diretta Carta del lavoro–Jobs Act — ha poi aggiunto la leader Cgil — Non stiamo lanciando un referendum abrogativo che si concentra sulle leggi varate dall’ultimo governo, ma andremo a toccare provvedimenti anche dei passati esecutivi, dal Collegato lavoro all’Articolo 8, norma che permette di derogare alle leggi».
La Carta è divisa in tre parti. Nella prima sono definiti i diritti che dovranno essere riconosciuti a tutti i lavoratori. Elenca i principali la stessa Camusso: «Il riposo, la maternità e la paternità. Il diritto a essere informati sulle proprie condizioni di lavoro e alla sicurezza. La libertà di espressione. Il diritto a non essere discriminati e quello alla riservatezza. Al sapere, che è istruzione e formazione continua. Il diritto d’autore: il rispetto dovuto alle creazioni dell’intelletto, non permettendo che le imprese le inglobino senza riconoscimento».
E ancora: «L’equo compenso, gli ammortizzatori sociali e il sostegno al reddito, il diritto alla tutela pensionistica». Lo sforzo della Cgil, al di là della battaglia per i contenuti, è quello di andare a intercettare tanti nuovi lavoratori — giovani ma non solo — che hanno impieghi sempre più saltuari e intermittenti, spesso di intelletto, e che non si concentrano necessariamente nella fabbrica, nel call center o nel centro commerciale. I lavori di intelletto, o del terziario, spesso raggiungibili solo attraverso i social.
Molti di loro, anche gli autonomi, ha spiegato Camusso, oggi sentono il bisogno di una tutela collettiva e del sindacato: spesso perché la partita Iva è imposta, e di fatto si è dipendenti mascherati, ma diritti come la malattia, le ferie, i riposi, devono essere patrimonio comune di chiunque lavori, anche se genuinamente autonomo. Nessuno spazio però, in questa prospettiva, per il reddito di cittadinanza: «L’obiettivo resta il diritto al lavoro, con i dovuti ammortizzatori».
La seconda parte della Carta è dedicata alla contrattazione: «Deve essere inclusiva — ha spiegato Camusso — e avere valore per tutte le figure di un settore. Bisogna realizzare l’articolo 39 della Costituzione, la validità erga omnes, certificando la rappresentanza, anche delle imprese. E cancellare le deroghe». Altro articolo della Costituzione da applicare, il 46: «La partecipazione, che per noi significa conoscere e potere intervenire sugli investimenti e l’organizzazione».
Infine, la parte dedicata al «riordino delle tipologie contrattuali»: con un’attenzione ai nuovi fenomeni, come «l’esplosione dei voucher», o la «trasformazione dell’apprendistato, visto che sembra sempre più complicato ricevere un’autentica formazione». I 97 articoli non dovranno valere solo per i lavoratori privati, ma includono anche il pubblico impiego.
«La nostra non è una battaglia difensiva, per tornare al passato — ha concluso Camusso — ma intendiamo guardare al futuro. Certo che serve una tutela contro i licenziamenti ingiustificati, ma noi non raggiungeremo i nostri obiettivi solo abrogando, perché non basterebbe. Bisogna anche costruire».

il manifesto 19.1.16
Ue, accordi con Israele inapplicabili nei Territori occupati
Israele/Ue. Il Consiglio per gli Affari Esteri dell'Ue traccia una distinzione netta tra Israele e gli insediamenti colonici costruiti in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nel Golan siriano e riafferma il sostegno alla soluzione dei due Stati. Netanyahu aveva cercato di bloccare la risoluzione con l'aiuto di cinque Paesi europei
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Si fa più profondo il conflitto tra Unione europea e il governo Netanyahu su occupazione e colonizzazione dei Territori. Ieri il Consiglio per gli Affari Esteri dell’Unione Europea ha approvato una risoluzione che traccia una distinzione tra Israele e gli insediamenti colonici costruiti in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nel Golan siriano. La risoluzione chiede che gli accordi tra lo Stato di Israele e l’Ue stabiliscano in modo inequivocabile ed esplicito la loro inapplicabilità nei Territori occupati nel 1967. A Israele si chiede di «mettere fine alle attività di insediamento e di smantellare gli avamposti (colonici) eretti dal marzo 2001», perché gli insediamenti «mettono seriamente a rischio la possibilità per Gerusalemme di diventare la futura capitale dei due Stati (Israele e Palestina)». I ministri degli esteri dell’Ue ricordano nella risoluzione che gli insediamenti «sono illegali in base alla legge internazionale, costituiscono un ostacolo alla pace e minacciano di rendere impossibile la soluzione dei due Stati». L’Ue inoltre riafferma la sua forte opposizione al Muro costruito da Israele in Cisgiordania e intorno a Gerusalemme, alle demolizioni e confische, anche di progetti finanziati dall’Europa, ai trasferimenti forzati di popolazione e alle restrizioni ai movimenti. Sono punti centrali in linea con la decisione presa a novembre dalla Commissione europea di richiedere una etichettatura diversa, quindi non con il “Made in Israel”, per le merci prodotte nelle colonie ed esportate verso l’Ue.
Israele per giorni ha provato a bloccare la nuova risoluzione europea. Domenica scorsa il premier Netanyahu aveva chiesto con forza ai rappresentanti di alcuni Paesi europei vicini a Israele — Cipro, Repubblica Ceca, Ungheria, Bulgaria e Grecia — di non votare la risoluzione. Il suo obiettivo ieri era quello di spingere per un rinvio del voto fino al prossimo meeting, tra un mese, per consentire a Israele e ai suoi alleati nell’Ue di ammorbidire il testo della risoluzione. Netanyahu, giovedì scorso, incontrando la stampa estera a Gerusalemme, aveva affermato che il “problema” non sono i singoli Paesi europei, con i quali il suo governo manterrebbe buoni rapporti, bensì la Commissione europea ossessionata da Israele. Il premier e i partiti che compongono la sua coalizione sono furibondi con l’Ue che insiste per la creazione di uno Stato palestinese e non intende riconoscere l’annessione a Israele, di fatto già avvenuta, di ampie porzioni di Cisgiordania.
Il conflitto con l’Ue è aperto, almeno su occupazione e colonie, ma il primo ministro israeliano non può permettersi di aggravarlo. Peraltro le relazioni con un Paese importante come il Brasile restano tese per la decisione di Netanyahu di confermare la nomina ad ambasciatore a Brasilia dell’ex leader dei coloni israeliani, Dani Dayan, nonostante il rifiuto del gradimento giunto dalla presidente Dilma Rousseff. Senza dimenticare che Netanyahu ha dovuto digerire la fine del regime di sanzioni internazionali contro la sua ossessione, l’Iran.
Nei Territori occupati la tensione continua a salire. Reparti israeliani si stanno dispiegando in aree della Cisgiordania lasciate negli ultimi 2–3 anni e spuntano ovunque posti di blocco. Ma è nella zona di Hebron che la pressione dell’esercito si è fatta più intensa. I soldati cercano il palestinese che domenica ha accoltellato e ucciso davanti ai figli una israeliana, Dafne Meir, nella colonia ebraica di Otniel. L’uomo è poi riuscito a far perdere le tracce. Centinaia di israeliani ieri hanno partecipato ai funerali della donna mentre giungeva la notizia del ferimento da parte di un palestinese di un’altra israeliana, vicino alla colonia di Tekoa. Sull’altro versante, solo la scorsa settimana, sono stati uccisi nove civili palestinesi (alcuni accusati da Israele di aver tentato attacchi), due dei quali adolescenti, oltre a un militante di Hamas. Sempre la scorsa settimana, secondo un bilancio del “Centro palestinese per i diritti umani”, unità israeliane hanno effettuato 72 raid — tutti in Cisgiordania, tranne uno a Gaza — e arrestato oltre 60 persone. Nel frattempo resta in ospedale, nel reparto di terapia intensiva, il giornalista palestinese Mohammed al Qiq, di Majd TV, arrestato lo scorso novembre dall’esercito israeliano e posto in “detenzione amministrativa” per sei mesi, senza processo. Al Qiq digiuna in segno di protesta da oltre 50 giorni ed è in condizioni gravi. L’istanza di scarcerazione presentata dal suo avvocato è stata respinta sabato scorso dalla corte militare di Ofer.

Il Sole 19.1.16
Il nuovo ordine del Medioriente
La pax americana e il doppio standard
di Alberto Negri

C’è un nuovo ordine in Medio Oriente dopo l’accordo con l’Iran? L’antico detto del principe Talleyrand che gli stati non hanno amici ma solo interessi è più valido che mai, soprattutto nel caso dei rapporti tra Washington, l’Iran e le altre potenze della regione. Non solo: qui tutto è doppio. Doppio è lo standard con cui gli americani trattano i Paesi non alleati, duplici e anche triplici gli effetti della diplomazia e della guerre, basti pensare alla Siria e all’Iraq.
«Doppio contenimento» è il nome da 30 anni della politica Usa nei confronti di sciiti e sunniti: dalla guerra Iran-Iraq degli anni 80, a quella del ’91 contro Saddam, alla disastrosa invasione dell’Iraq nel 2003. Salvo poi misurare ogni mutamento di equilibrio in centinaia di migliaia di morti. Ma una versione aggiornata della pax americana si deve ancora vedere: Barack Obama e gli Usa sembrano ispirarsi alla realpolitik di Metternich e di Talleyrand giostrando in maniera precaria sulle rivalità locali ed evitando, fino dove è possibile, un coinvolgimento diretto. Dilemma libico compreso, il che forse non è del tutto una buona notizia per gli europei e gli italiani.
Quanto al doppio gioco, questo non è un eccezione ma la regola, al punto che Obama, dopo avere compiuto il passo più importante della sua presidenza, quello per cui forse passerà alla storia come Nixon e Kissinger con la Cina, ha innestato la retromarcia, quel tanto che basta per tenere buoni vecchi alleati assai irritati dall’intesa con Teheran, come Israele, l’Arabia Saudita e la Turchia.
Non può quindi stupire che dopo avere tolto le sanzioni relative al nucleare, gli Usa ne abbiamo imposte altre per l’arsenale missilistico con conseguenti e invelenite reazioni degli iraniani. Le scintille tra le due parti non mancano adesso né mancheranno in futuro. Ma sarebbe più sorprendente se Obama, o un qualunque leader americano, si rivolgesse alla Turchia di Erdogan o all’Arabia saudita con lo stesso tono con cui apostrofa l’Iran. Il presidente americano ha raccomandato a Teheran, con un eccesso di enfasi retorica, di «aprirsi al mondo», come se la repubblica islamica fosse più chiusa e intrattabile della pessima monarchia dei Saud, che taglia teste tutti i giorni a colpi di sciabola e impedisce alle donne persino di guidare. Oltre al fatto che sostiene i gruppi islamici più radicali e conduce una guerra devastante in Yemen, che per altro non riesce a vincere per manifesta incapacità. Obama è bravo a bacchettare gli iraniani ma ai sauditi non intende rimproverare mai nulla.
Anche l’Europa farebbe bene ogni tanto a raccomandare al presidente Erdogan di non mettere in galera intellettuali e giornalisti se vuole davvero entrare nell’Unione, o per lo meno avere la libera circolazione per i suoi cittadini in cambio dell’ospitalità a due milioni di rifugiati siriani. E invece da un parte gli Usa sono sempre pronti a vendere armi e a proteggere la retrograda dinastia dei Saud, dall’altra gli europei stanno zitti davanti a ogni violazione dei diritti umani di Erdogan nei confronti dei turchi e dei curdi. E tanto meno, sia in Europa che negli Stati Uniti, nessuno osa più parlare di un negoziato tra israeliani e palestinesi, inghiottiti nel dimenticatoio della diplomazia grazie anche ai loro “amici” arabi. Forse solo il Califfato a Gaza potrebbe improvvisamente risollevare l’attenzione per la Palestina.
Non che la repubblica islamica sia molto meglio dei sauditi in tema di diritti umani e condanne a morte – anche in Iran il boia lavora a tutto spiano e le carceri rigurgitano – ma almeno si oppone ai jihadisti del Califfato e non ha quell’aria truce e inaffidabile dei governi di Riad e di Ankara che si dicono amici dell’Occidente. Del resto chi fa la guerra all’Isis sono l’Iran, la Russia di Putin sotto sanzioni, gli Hezbollah, che ancora compaiono nella lista nera Usa, e i curdi, che per la Turchia sono tutti pessimi tranne quelli di Massud Barzani, eccellente fornitore di petrolio di Ankara e di Israele.
Ma ora con la fine di una parte delle sanzioni sono tutti ventre a terra per fare affari con Teheran. Secondo l’«Economist» nei prossimi dieci anni il Pil iraniano potrebbe superare quello di sauditi e turchi.
È probabile che con i dollari e gli euro migliorerà anche l’immagine dell’Iran e si attenuerà il doppio standard delle relazioni internazionali che rende ipocrita oltre che inefficace la politica estera occidentale. Con il portafoglio gonfio e la calcolatrice in mano, è ovvio, si diventa più di manica larga su diritti umani, pena di morte e libertà civili.