Il Sole 17.1.16
Le occasioni di pace perse in Israele
Parla Dennis Ross, storico negoziatore nel dissidio fra israeliani e palestinesi
di Ugo Tramballi
Quattro
o cinque attentati e due o tre morti al giorno, qualche lancio
saltuario di razzi, una sfiducia sempre più difficile da scalfire.
Eppure, con tutto ciò che accade in Medio Oriente e in Europa è
comprensibile che il conflitto fra israeliani e palestinesi sembri
irrilevante. Ma è saggio? «No. Una nuova generazione, la maggioranza dei
palestinesi fra i 15 e i 25 anni, è arrabbiata. Non hanno fiducia nella
loro leadership: l’80% pensa che l’Autorità palestinese sia corrotta.
Sono arrabbiati con i paesi arabi che non hanno tempo per occuparsi di
loro, e lo sono con gli israeliani che non offrono possibilità di
cambiamento. Quando la frustrazione è a questi livelli, cresce la
violenza. E con la violenza l’impossibilità di una soluzione».
Dennis
Ross, 66 anni, è stato il negoziatore americano par excellence del
processo di pace fra israeliani e palestinesi: conferenza di Madrid,
Oslo, Camp David, Taba, Annapolis e tutti gli altri luoghi dove la
speranza è balenata e tramontata. Quasi 30 anni al servizio di cinque
presidenti, soprattutto di Bill Clinton. In attesa di vedere se l’anno
prossimo vincerà Hillary e sarà richiamato in servizio, Ross ha
pubblicato Doomed to Succeed: the Us-Israel relationship from Truman to
Obama (Farrar, Strauss and Giroux, New York, 2015). Condannati a
riuscire senza avercela fatta dopo tutti questi anni: il sospetto che
una seria parte di colpa sia del mediatore americano e delle sue
relazioni con Israele, è legittimo.
«Nei suoi primi quattro anni
l’amministrazione Bush non tentò alcuna trattativa e la seconda
Intifada, la peggiore, esplose», risponde Denis Ross. «Ma nessuno si è
offerto di prendere il nostro posto: non la Ue né la Russia. Perché
nessuno può influenzare gli israeliani quanto noi. Certo che abbiamo
relazioni speciali con Israele, ma non significa che non abbiamo avuto
cura di entrambe le parti. Se i palestinesi avessero accettato le nostre
proposte ora avrebbero uno stato e una capitale, Gerusalemme».
Lei dunque crede nella definizione di honest brooker, di mediatore equidistante, sulla quale in Europa hanno qualche dubbio?
Credo
in quella di mediatore efficace. Quando George Mitchell negoziò la pace
nell’Irlanda del Nord, i protestanti lo accusarono di stare con i
cattolici; i serbi dicevano che Richard Holbrooke stava con i musulmani
nella trattativa sulla Bosnia. Ma la chiave è tenere conto delle
richieste delle due parti in conflitto.
Appunto. Nel libro lei
cita Bob Gates, ex direttore della Cia, che ricorda la frustrazione di
tutti i presidenti, impossibilitati ad agire perché Israele è sempre
stato un problema di politica interna.
Le considerazioni
domestiche influiscono sulle decisioni di ogni governo? Si. Sono mai
stati determinanti rispetto alle nostre decisioni per promuovere la
pace? No. Ogni volta che un presidente deve fare una scelta che riguarda
l’interesse nazionale, la persegue anche se una lobby si oppone. Pensi
all’accordo con l’Iran.
Però contro quell’accordo il Congresso sobillato da Netanyahu, ha sfiorato una secessione contro Obama.
Il
presidente non è forse riuscito a farlo passare? È esattamente ciò che
dico: il governo definisce le politiche. È vero, il Congresso è molto
più pro Israele. Perché è la gente che sostiene Israele: è una
democrazia e attorno c’è una regione devastata dai conflitti.
Allora perché questo conflitto è così persistente?
Perché
non c’è una parte che ha ragione e una torto. La mia opinione è che i
principali responsabili della sua durata siano i palestinesi. Negli
ultimi 20 anni abbiamo offerto almeno tre occasioni per risolverlo: nel
2000 con Clinton e io ne fui il principale ideatore; nel 2008 quando
Ehud Olmert avanzò proposte che andavano oltre i parametri di Clinton;
nel 2013 quando fu Obama a presentare le sue, offrendo più di quello che
aveva concordato con Netanyahu. Ma i palestinesi hanno sempre
rifiutato: per loro conta preservare il loro status di vittime. Solo
l’ex premier Salam Fayyad creò le strutture di uno stato che gli
israeliani non avrebbero potuto ignorare. Ma i palestinesi l’hanno
rimosso.
Non le sembra di essere troppo tollerante con le responsabilità d’Israele?
Come
ho detto, questo non è uno scontro fra un colpevole e una vittima.
Anche Israele non fa quello che dovrebbe fare: per esempio non ha mai
aiutato abbastanza Fayyad. Anche adesso dovrebbero impegnarsi a dare un
segno per dimostrare che vogliono ancora la soluzione dei due stati,
avere una politica degli insediamenti che guardi a quell’obiettivo.
È ancora possibile quella soluzione?
Se
rimanesse solo l’ipotesi di uno stato per due popoli, sarebbe la fine
del sogno palestinese per l’indipendenza nazionale. E sarebbe un
disastro per gli israeliani. Uno stato bi-nazionale è la garanzia per un
conflitto senza fine. Guardi cosa sta accadendo nella regione: ovunque
ci sia un paese con più di un’identità dentro le sue frontiere, quel
paese è in guerra con se stesso.