Il Sole 17.1.16
Quel legame che unisce ebrei e cristiani
di Bruno Forte, monsignore
La
visita odierna di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma – analogamente a
quelle di Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986 e di Benedetto XVI il 17
gennaio 2010 – mette in evidenza non solo l’importanza che il popolo
ebraico e la sua fede hanno per i cristiani, ma anche la rilevanza che
il cristianesimo ha per l’ebraismo, come ancora una volta ho
sperimentato di persona in questi giorni tenendo la «annual lecture» al
Centro di studi sul cristianesimo della Hebrew University di
Gerusalemme.
Perché questa rilevanza?
La risposta può essere
cercata in una scena biblica, cui sono ricorsi gli antichi pensatori
cristiani per illuminare il rapporto fra Israele e la Chiesa. Si tratta
dei due esploratori di ritorno dalla terra di Canaan, che portano
insieme un’asta da cui pende un grappolo d’uva, che essi accompagnano
col melograno e il fico: «Giunsero fino alla valle di Escol, dove
tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con
una stanga, e presero anche melagrane e fichi»(Numeri 13,23). Nell’asta i
Padri della Chiesa hanno visto il legno della Croce, da cui pende
Cristo: «Figura Christi pendentis in ligno» (così ad esempio Evagrio
intorno al 430 nella «Altercatio inter Theophilum et Simonem»: PL
20,1175). Nei due portatori, uniti e separati da quel legno, hanno
riconosciuto Israele e la Chiesa: «Portando l’asta, essi appresentavano i
due popoli, l’uno avanti, quello ebraico che dà la spalle a Cristo, e
l’altro indietro, che guarda al ramo, il popolo dei cristiani»(ivi:
stesse idee in S. Massimo di Torino, alla metà del V secolo: Homilia 79:
PL 57,423s). In quanto marciano l’uno dietro all’altro, chi precede
guarda solo davanti a sé ed è perciò figura d’Israele, popolo della
speranza e dell’attesa fondate sulla promessa di Dio; chi viene dietro
vede, invece, colui che gli sta davanti e l’orizzonte da questi
abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura
della Chiesa, che confessa in Cristo crocefisso la chiave di lettura
anche dell’alleanza con Israele e della promessa fatta ai credenti. Col
mostrare la differenza, l’immagine afferma non di meno la profonda
continuità che esiste fra i due popoli, non solo per il legame
dell’unico legno che entrambi gli esploratori portano, ma anche per
l’orizzonte comune della meta cui si rivolge il loro sguardo.
Uniti
nella speranza e nell’attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme,
distinti e congiunti al tempo stesso dal legno della Croce. Il legame è
così forte, che il recente documento della Commissione per i rapporti
religiosi con l’ebraismo della Chiesa Cattolica, pubblicato in occasione
del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione “Nostra Aetate” del
Concilio Vaticano II (10 Dicembre 2015, dal titolo: «Perché i doni e la
chiamata di Dio sono irrevocabili!», citazione della Lettera di Paolo ai
Romani 11,29), non esita ad affermare: «Il dialogo con l’ebraismo
occupa per i cristiani un posto unico: il cristianesimo, date le sue
radici, è unito all’ebraismo più di quanto non lo sia a qualsiasi altra
religione. Pertanto, solo con le dovute riserve, il dialogo
ebraico-cristiano può essere definito dialogo interreligioso in senso
stretto: si dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di dialogo
intra-religioso o intra-familiare» (n. 20).
In particolare, tre
elementi di continuità e insieme di discontinuità fra Israele e la
Chiesa possono essere evidenziati: il carattere escatologico della
rivelazione biblica, tanto del Primo quanto del Nuovo Testamento, e cioè
la convinzione che in essa ci è offerto il senso ultimo della vita e
della storia, e pertanto ci è indicata la direzione di marcia che rende
piena e significativa l’esistenza umana in questo mondo; il carattere
comunitario della salvezza, determinato dal principio fondatore
dell’alleanza fra l’Eterno e il Suo popolo; il significato messianico
dei due popoli, tanto di quello dell’attesa, quanto di quello del
compimento, e dunque la missione che essi hanno in forma simile ed
insieme diversa per tener alto nella vicenda umana il senso religioso,
inteso come l’apertura accogliente al Dio che si rivela per la nostra
salvezza, motivato unicamente dall’amore per le sue creature. Ciò che
unisce i due esploratori è dunque anzitutto l’orizzonte cui si volge il
loro sguardo: la Verità per cui vale la pena di vivere sta davanti a
loro. Verso di essa orientano i loro passi, ad essa anela il loro cuore.
Perché questo avvenisse, la stessa Verità ha parlato il linguaggio
degli uomini e infiammato di desiderio i loro cuori: l’Infinito è
entrato nel finito per comunicarsi a noi! Questa convinzione è espressa
dai maestri ebrei con un assioma ricorrente: «Il piccolo può contenere
il grande»(cf. Genesi rabbah V.7 e Levitico rabbah X.9). Non
diversamente si esprime la sapienza cristiana: «Non essere costretti dal
massimo, essere invece contenuti dal minimo, questo è divino» (elogio
sepolcrale di Sant’Ignazio di Loyola).
Questa convinzione è alla
base della dottrina dello “zimzum”, cara alla mistica ebraica, e
dell’idea della “kenosi” del Verbo, centrale nel messaggio cristiano.
“Zimzum” è l’atto del divino contrarsi, quel farsi piccolo del Dio vivo
che consente alla creatura di esistere davanti a Lui nella libertà e
nell’amore. L’invocazione “Tu sei Umiltà”, contenuta nelle Lodi del Dio
Altissimo di San Francesco, mostra quanto questo messaggio corrisponda
all’anima cristiana, per la quale la conferma suprema dell’attendarsi di
Dio nella fragilità e piccolezza delle misure umane sta proprio nel
farsi carne del Verbo eterno e nel suo “annientamento” (“kénosi”) per
amore nostro. Questa “estasi” del divino, questo “star fuori”
dell’Infinito nel finito, è al tempo stesso l’appello più alto che si
possa concepire al cammino della creatura verso il Mistero, che è la
vocazione ultima della creatura alla verità e alla bellezza che salva, e
che per il cristiano è resa realizzabile dall’“abbreviarsi” del Verbo
nella carne. Il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel
finito: qui la fede dell’ebreo Gesù unisce Israele e la Chiesa; qui la
fede in Lui li distingue, pur senza separarli, nel comune cammino della
speranza verso il compimento della promessa di Dio nel Regno che non
avrà fine.
Nel messaggio di quest’anno per la giornata del dialogo
ebraico cristiano, che cade sempre il 17 Gennaio, Rav. Giuseppe
Momigliano, Presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, ed io in
quanto Presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il
dialogo interreligioso, abbiamo perciò affermato: «Attraverso le nostre
fedi riconosciamo anzitutto tutto il bene che c’è nel mondo, ed insieme
viviamo con angoscia gli eventi del presente, che sono carichi di
sofferenza e di inquietanti prospettive per il futuro, assistiamo
sgomenti a gesti orrendi che profanano il Nome dell’Eterno, perpetrati
con l’ignobile pretesa di adempiere alla Sua volontà, cogliamo con
preoccupazione i segni sempre più frequenti di un’umanità smarrita,
delusa da tante false idolatrie… Mentre rinnoviamo la nostra fedeltà ai
principi e ai precetti che, con distinte peculiarità, caratterizzano le
nostre fedi, sentiamo l’urgente necessità di ribadire la fiducia che,
proprio dal fecondo dialogo da noi intrapreso, dalla ricerca di valori
morali e spirituali condivisi nei quali operare in sintonia, possa
scaturire una positiva testimonianza di fede, suscettibile di restituire
speranza e di rivolgere nuovamente i cuori di molti verso l’Eterno».
Anche
per questo la visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma è un
evento che tocca tutti, credenti e non credenti che siano.