Il Sole 15.1.16
L’assalto alla democrazia
di Ugo Tramballi
Volendo
accontentarsi, questo terrorismo così planetario ha una caratteristica
consolatoria: colpisce con “equanimità”. I francesi e i loro rivali di
sempre, i belgi; la solare California e la gelida Boston.
Destabilizza
i paesi alle frontiere del grande caos, come Tunisia, Turchia, Libano,
Giordania, Kuwait; e quelli molto più distanti come l’Indonesia, in un
altro contesto geopolitico ed economico, radicalmente diverso. Di ogni
attacco e per ciascun luogo, si possono dare spiegazioni tecnicamente
razionali. L’Indonesia è per popolazione il più grande paese musulmano.
Ma dei suoi 250 milioni di abitanti, solo il 73% sono islamici. Ci sono
anche cristiani, hindu, buddhisti e confuciani. Dopo decenni di
dittatura, ha conquistato una democrazia la cui liberalità religiosa
dimostra di avere assimilato la tradizionale tolleranza indiana e il
laicismo mercantile cinese. Un modello che non è stato intaccato dalla
presenza autoctona di uno dei peggiori movimenti terroristici religiosi:
la Jemaah Islamiyah che ha già compiuto numerosi attentati in Indonesia
e in altri paesi dell’Estremo Oriente. L’Indonesia è anche uno dei
migliori casi mondiali e regionali di crescita economica. Questa e la
sua democrazia - alle ultime elezioni i partiti religiosi estremi sono
stati pesantemente sconfitti - dimostrano che non c’è incompatibilità
fra Islam, sviluppo economico e democrazia. Lo conferma anche la vicina
Malaysia. Il problema è forse più l’incapacità araba di saper creare un
modello statale moderno e funzionale. In questo caso contano più il
tribalismo e la corruzione, che la fede.
Tuttavia, interessano
queste considerazioni ai terroristi che ieri mattina hanno scatenato una
piccola guerra a Giacarta? Volevano specificatamente colpire la
democrazia, la tolleranza religiosa, il successo economico
dell’Indonesia? A Hurgada miravano all’economia egiziana fondata come
quella tunisina sul turismo? E in Francia alla qualità della vita e alla
felicità intrinseca dei giovani parigini? Probabilmente a niente di
tutto questo e a tutto. È ciò che terrorizza la popolazione di mezzo
mondo. Ma sfortunatamente il terrorismo non è una grande novità. C’è
stato quello nero e quello rosso. I milanesi con qualche anno di età
ricordano nitidamente la paura e lo smarrimento il 12 dicembre del 1969,
quando esplose la bomba in piazza Fontana. Come i bolognesi la strage
alla stazione, il 2 agosto 1980. C’è stato il terrorismo palestinese,
disperato ma non meno folle: il suo autolesionismo ricorda quello del
Pkk curdo che ieri in Turchia è tornato a colpire nel momento e nei modi
più sbagliati. Restando alla matrice islamista, già negli anni Novanta i
terroristi algerini del Gia avevano colpito la metropolitana di Parigi.
Nel decennio successivo, dopo l’11 Settembre, ci sono stati gli
attentati alla stazione di Madrid e alla metropolitana di Londra. Anche
quando l’Isis sarà sconfitta militarmente sul campo in Siria e Iraq -
non sappiamo quando ma prima o poi accadrà - il terrorismo non cesserà.
Indipendentemente dalla soluzione o dall’aggravarsi dello scontro di
civiltà, delle ingiustizie economiche, dell’integrazione, ci saranno
sempre “motivi” per colpire la corrente maggioritaria di ogni società
civile e gruppi pronti a uccidere comunque.
Le metodologie
dell’Isis sono più palesemente sanguinarie ma sostanzialmente ortodosse:
bombe, morte, individui o piccoli gruppi suicidi. La novità, la sua
forza principale, non è tanto quella di essersi data una dimensione
territoriale, ma di sapersi vendere: il web, più della presenza quasi
statale, fisica di un califfato. È la pubblicità, la cura dell’immagine
oltre il messaggio, che gli ha permesso, come una multinazionale, di
assorbire, conglomerare e alleare prima al Qaeda e poi le altre
organizzazioni locali. Di avere alla fine un brand globale che nessun
altro terrorismo ha avuto.