il manifesto 15.1.16
L’ordine politico dei grandi spazi
Una nuova edizione di alcuni testi del filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt nel volume Adelphi «Stato, Grande Spazio, Nomos»
Saggi che mantengono inalterata una funzione di antidoto all’estremismo dell’universalismo liberale
di Carlo Galli
Stato,
Grande Spazio, Nomos (Adelphi, pp. 528, euro 60) raccoglie,
selezionati e tradotti da Giovanni Gurisatti, alcuni importanti saggi
che Carl Schmitt pubblicò dal 1927 al 1978, precedentemente accolti in
due importanti antologie tedesche — una del 1996, l’altra del 2005. Vi
compaiono alcuni dei lavori più celebri del giurista: tra gli altri, la
prima versione di Il concetto di «politico» (quella in cui il
«politico», il rapporto amico/nemico, è interpretato come un ambito
specifico, mentre di lì a poco diventerà, ancora più radicalmente, il
grado estremo d’intensità del conflitto); la quarta edizione, del 1941,
dell’opuscolo su L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto
internazionale (in cui venne aggiunto, tra l’altro, un capitolo
contenente una polemica anti-ebraica contro Kelsen; per questo libro
Schmitt corse il rischio di finire imputato a Norimberga come complice
della guerra d’aggressione nazista verso l’Urss); il densissimo saggio
del 1943 sul Mutamento di struttura del diritto internazionale (1943),
che anticipa il grande libro del 1950 su Il Nomos della Terra; il testo
del 1952 su L’Unità del mondo, in cui la guerra fredda è interpretata
non come scontro duale fra Usa e Urss ma come una tensione interna ad un
unico campo teorico e pratico, cioè la Terra dominata dalla tecnica;
un’originale interpretazione di Clausewitz come pensatore politico
(1967); e infine il canto del cigno di Schmitt, La rivoluzione legale
mondiale (1978), un articolo che si conclude con un dittatore che in
punto di morte, invitato dal sacerdote a perdonare i nemici, risponde
«non ne ho: li ho ammazzati tutti» (ed è, per Schmitt, la metafora dei
poteri che utilizzano il loro monopolio del diritto per spazzare via
legalmente il nemico politico come criminale e nemico dell’umanità).
Un successo globale
Molti
di questi testi sono già noti al lettore italiano, ma spesso in
traduzioni parziali e incomplete, oppure molto datate (degli anni del
fascismo), oppure ancora collocati in sedi raggiungibili solo dagli
specialisti; da oggi, invece, sono disponibili a un pubblico più vasto,
per un supplemento d’informazione e di riflessione sul lascito
intellettuale, sempre sconcertante, di uno studioso, Carl Schmitt, la
cui fama continua a dilagare nel mondo: dall’originaria singolare
fortuna italiana degli anni Settanta e Ottanta (tuttora fortissima) alla
consistente attenzione francese, spagnola e sudamericana (sempre
crescente), alla consacrazione nella sua patria tedesca (che, dapprima
incredula e riluttante, lo ha poi legittimato inserendolo dagli anni
Novanta nella potente macchina accademica delle dissertazioni
dottorali), all’inondazione del mercato filosofico anglo-americano, fino
all’elevazione, nella Cina comunista, a filosofo politico di regime
(con particolare riguardo alla sua produzione autoritaria di epoca
nazista; qualcosa di simile era già successo nella Corea del Sud).
Tutti
(a destra e a sinistra) ormai vedono tutto, in Schmitt – con maggiore o
minore fondatezza e acribia filologica, s’intende. Autore della
decostruzione e della teologia politica, dell’autorità e della
ribellione partigiana, della decisione e della costituzione, dello Stato
e del suo superamento, dell’ordine e del conflitto, Schmitt esibisce
tanto una camaleontica versatilità spinta ben oltre i limiti
dell’opportunismo (la sua adesione al nazismo fa scorrere fiumi
d’inchiostro, ma non lo condanna alla infamia e alla damnatio memoriae
come vorrebbero alcuni critici) quanto una ricchezza e molteplicità di
pensiero che lo ha reso ormai un classico della politica, i cui libri
sono imprescindibili come quelli, ad esempio, di Max Weber – benché il
pensiero di Schmitt sia, ancor più di quello weberiano, coinvolto
profondamente nella politica (di lui si diceva che, ascoltandolo, non si
capiva se si dovesse invadere la Francia o darsi allo studio
approfondito dello jus publicum europaeum).
Le aporie della modernità
Una
parte di questa fortuna nasce dall’idea che Schmitt abbia la capacità
di fornire chiavi interpretative del mondo contemporaneo, sia perché
l’emergenza sarebbe il modo normale con cui funziona il sistema politico
nel mondo neoliberista, sia perché il suo realismo politico sarebbe
assai indicato a decifrare i limiti e le intrinseche contraddizioni
dell’ideologia universalistica della globalizzazione anglosassone.
In
realtà le cose sono più complesse. Schmitt è stato un formidabile
pensatore novecentesco, impigliato esistenzialmente nella decostruzione
delle aporie della modernità al tramonto, piuttosto che un autore
post-moderno appaesato nel XXI secolo. E ciò proprio per il dato
strutturale della onnipervasività dell’odierna economia capitalistica, e
quindi del mutato ruolo dello Stato, che moltiplica sì le eccezioni, le
forzature extraistituzionali, ma che al contempo rende difficile
ipotizzare oggi una significativa vigenza della grande decisione
sovrana. Certo, la critica schmittiana del potenziale discriminatorio
implicito nell’universalismo ideologico che sorregge la politica
internazionale – che non riconosce nemici politici ma solo «criminali»,
«pirati», nemici dell’umanità – è convincente e appropriata; ma la sua
teoria dei Grandi Spazi, pensata sia come superamento della forma-Stato
sia come antidoto all’astrattezza e all’estremismo dell’universalismo,
non solo si scontrò a suo tempo con la dottrina nazista dello Spazio
vitale (anch’esso illimitato e discriminatorio, e quindi lontano dalla
concretezza a cui aspirava Schmitt), ma è resa oggi quanto meno dubbia
dal prevalere della potenza di sradicamento del capitalismo rispetto a
ogni politica di fissazione dell’ordinamento sul suolo, e di chiusura
ordinativa dello spazio. Non a caso Schmitt è, come Heidegger,
concentrato sulla critica della tecnica (marina, contrapposta alla
terrestrità dello Stato e anche del partigiano) molto più che sulla
critica dell’economia.
La potenza dell’etere
La verità è che
Schmitt è ancora giurista, e quindi legato a quello Stato di cui pure
attua la radicale destrutturazione, ovvero è orientato all’ordine –
benché sia al contempo tragicamente consapevole della sua interna
contradditorietà e abissale infondatezza. La sua capacità critica e
analitica è grande, ma non va al di là dello svelamento e della
decostruzione dei meccanismi con cui lo Stato nasce, agisce, crea il
sistema mondiale degli Stati, e agonizza; oltre lo Stato – di cui ha
lucidamente colto la contingenza storica – Schmitt sa bene che si deve
andare, ma non sa come (soprattutto quando, nel dopoguerra, il pensiero
dei Grandi Spazi non fu più immediatamente proponibile). La sua teoria
del nomos (dell’ordine internazionale orientato) funziona
retroattivamente, per spiegare (benché parzialmente) con potenti
campiture splendori e miserie dell’età moderna e dello jus publicum
europaeum; ma applicata al presente assume un ambiguo significato
mitico, o nostalgico di perduti radicamenti.
Com’è giusto,
Schmitt, il quale si è spinto fino a presagire la nuova rivoluzione
spaziale, quella del web (da lui intravista nel trionfo del nuovo
elemento, l’aria – come prevalenza del potere aereo, ma potremmo dire
come potenza dell’etere, dello spazio virtuale –, che prende il
sopravvento sulla terra e sul mare, protagonisti della modernità), non
può pensare per noi. Proprio da chi ha sostenuto che la verità è vera
una volta sola, all’interno di determinate configurazioni di potere,
viene l’invito a noi, perché pensiamo la verità, l’ordine e il
disordine, del nostro tempo. Congedandoci, per quanto possiamo, dal
lungo congedo schmittiano dalla modernità. Procedendo con Schmitt oltre
Schmitt.