Il Sole 10.1.16
L’Italia e la polveriera libica
di Vittorio Emanuele Parsi
Terrorismo,
migranti e petrolio: ci sono tutti gli elementi per capire perché nel
2016 il dossier libico rivesta un’importanza cruciale per la politica
estera italiana e la stabilizzazione della Libia rappresenti un
obiettivo di interesse nazionale per l’Italia.
Il governo ne è
consapevole, al punto da aver lavorato sottotraccia negli ultimi mesi
del 2015 per ottenere una sorta di investitura per la leadership
tricolore alla preannunciata iniziativa internazionale a sostegno della
stabilizzazione del Paese nordafricano, quantomai urgente considerando
come il Califfato stia conoscendo ulteriori sanguinosi successi. La
conferenza di Roma del 13 dicembre scorso, in fondo, serviva anche a
consacrare la “legittimità” delle pretese italiane di coordinare e
guidare qualunque futuro intervento: un successo oggettivo, se solo si
considera che in settembre l’Italia era stata esclusa dal vertice
trilaterale (Francia, Germania, Regno Unito) convocato a Parigi dal
presidente Hollande. Un episodio, quello, che aveva segnato uno dei
massimi momenti di tensione (poi solo parzialmente rientrata) tra il
premier Renzi e la sua ex ministra degli Esteri Federica Mogherini, nel
frattempo divenuta Alta rappresentante per la politica estera e di
sicurezza dell’Unione. Portato a casa il risultato della conferenza, e
ottenuta nella settimana successiva sia il tanto sospirato accordo tra
le due principali fazioni che (non) governano il Paese sia una
Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che impegnasse gli Stati membri
dell’Onu a fornire assistenza al nuovo governo di unità nazionale, è
iniziata la parte più difficile del lavoro. Che tipo di contenuti dovrà
avere la missione e in che modo l’Italia pensa di esercitare e difendere
la propria leadership è infatti una cosa ancora tutta da definire ed è
proprio su questo che il ministro degli Esteri Gentiloni e quello della
Difesa Pinotti lavorano e lavoreranno nelle prossime settimane, di
sicuro “discretamente” coadiuvati dall’amministratore delegato dell’Eni:
la compagnia italiana ha in Libia consistenti interessi e tra i compiti
che ricadrebbero sulle truppe del contingente italiano che gli Stati
Maggiori stanno approntando ci sarebbe anche quello della protezione di
pozzi di estrazione e piattaforme off-shore del “cane a sei zampe”,
sullo schema di quanto deciso per la diga di Mosul, in Iraq.
Ricevendo
il premier incaricato Fayez Al-Serraj a palazzo Chigi il 28 dicembre
scorso, Matteo Renzi aveva ribadito il pieno sostegno italiano al
tentativo di dar luogo a un esecutivo di unità nazionale, la totale
fiducia nella capacità del nuovo governo ad affrontare le sfide che lo
attendono e la completa disponibilità italiana a rispondere alle
richieste di aiuto e assistenza che dovessero pervenire dalle autorità
libiche. Me è del tutto evidente che le incognite sul cammino sono
enormi e molteplici, a iniziare dalla tenuta del patto tra le autorità
di Tobruk e quelle di Tripoli (peraltro non ancora ratificato), per
tacere delle prevedibili reazioni sottili delle diverse bande che si
sentono o sono state escluse dalla piattaforma patrocinata dalla
comunità internazionale e che non si limiteranno a farsi da parte
pacificamente: l’Isis certamente, così come le formazioni qaediste, ma
non solo loro evidentemente. Proprio questo tema potrebbe rivelarsi il
primo e principale intoppo su cui la leadership italiana potrebbe
incagliarsi. Nonostante le intermittenti aperture dei ministri degli
Esteri e della Difesa circa la possibilità di un invio di unità
aeronavali e di unità di terra non solo in veste di addestratori, la
posizione fino ad ora continuamente ribadita da Matteo Renzi è sempre
stata quella di una sostanziale indisponibilità italiana a partecipare
attivamente ad azioni di combattimento nei confronti delle formazioni
dell’Isis, di Al Qaeda o di altri anche in Libia. Né più né meno di
quanto del resto accade in Iraq, Afghanistan e Libano. Non può sfuggire
invece che, comunque sarà configurato, l’intervento in Libia dovrà
necessariamente contemplare una componente “cinetica”, considerate le
condizioni di estrema insicurezza del Paese e la fragilità delle
nasciture nuove istituzioni libiche. Un governo come l’attuale,
estremamente refrattario a impiegare nelle funzioni di combattimento
(che gli sarebbero proprie) i suoi soldati, riuscirà a mantenere la
leadership dell’operazione se questa dovesse richiedere un impiego
effettivo della forza appena superiore a quello della mera dissuasione?
Anni di guerra civile, l’azione di attori esterni fin qui in conflitto
tra loro (Egitto ed Emirati, Qatar e Turchia), la presenza crescente di
formazioni jiahdiste e i decenni di dittatura personale di Gheddafi
rendono d’altronde pressoché inevitabile che la lunga e pesante azione
di State-building avvenga in un ambiente che resterà altamente insicuro
per molti mesi, se non per anni. In termini di durata e consistenza
dell’impegno, lo sforzo cui la comunità internazionale è chiamata
rischia di assomigliare a quello compiuto in Bosnia o in Afghanistan
piuttosto che a quello attuato nel Libano meridionale. Dopo aver così
intensamente lavorato per guidare l’azione internazionale in Libia,
anche a costo di apparire poco generoso e solidale nell’azione contro
Isis in Siria ed Iraq, il governo non può correre il rischio che la
timidezza nelle regole di ingaggio e nei caveat o la limitatezza degli
obiettivi assegnati ai militari italiani (tutela delle infrastrutture
dell’Eni e addestramento delle forze di sicurezza libiche) vanifichi il
risultato. In questo, o la politica renziana verso l’impiego dei
militari italiani “cambierà verso”, oppure la leadership dell'intera
operazione potrebbe passare ad altri (gli inglesi, hanno già destinato
1.000 uomini all’operazione “Libia 2”). Questo però potrebbe avere
conseguenze molto pesanti per gli interessi dell’Eni, che il premier
ritiene “parte dell’interesse nazionale”, per riprendere le parole
pronunciate da Matteo Renzi a proposito delle attività egiziane della
compagnia di Metanopoli. Paradossalmente, se la situazione libica
dovesse migliorare, potrebbero tornare a farsi molto consistenti anche i
flussi dei migranti, che negli ultimi mesi del 2015 si erano
sensibilmente ridotti.
Una “moderata instabilità” renderebbe
infatti di nuovo praticabili il “Libyan trail” tra Africa subsahariana e
coste del Mediterraneo, che alimentava le rotte tra Libia e Italia. È
vero che le navi della coalizione si aggiungerebbero a quelle del
dispositivo Frontex nell’attività di pattugliamento, ma è impensabile
che esse possano effettuare “respingimenti in alto mare”, come ai tempi
dell’ultimo governo Berlusconi, prassi peraltro proibita anche dalle
normative comunitarie in vigore.
L'unica speranza di limitare il
flusso dei migranti passerebbe quindi necessariamente per un controllo
internazionale dei porti libici e per un accordo complessivo con la
Libia. Non è un caso che, proprio in occasione della sua visita romana,
il premier designato Al-Serraj, abbia parlato di voler “riattivare il
Trattato di amicizia e cooperazione” tra Italia e Libia, firmato da
Berlusconi e Gheddafi il 20 agosto 2008, che prevedeva tra l’altro
l’impegno libico a combattere l’immigrazione clandestina.
Com’è
facilmente intuibile, un simile risultato non può però essere
considerato immediatamente a portata di mano, mentre potrebbe essere
raggiunto in un’eventuale “fase 2” dell’operazione, quando la complessa
azione di State-building della nuova Libia fosse già a buon punto: molto
ottimisticamente non prima del 2017.