Il manifesto Alias 10.1.16
La logica della libertà reclama per sé la liberazione dalla verità
Filosofia
ebraica. «Tra Atene e Gerusalemme», una ampia antologia in cui Shlomo
Pines, studioso di origine russa e di ascendenza sefardita, smonta
l’idea granitica della singolarità ebraica a favore di un’identità
plurima
di Massimiliano De Villa
Per chi non
frequenti la storia del pensiero ebraico, quello di Shlomo Pines è,
forse, un nome senza troppa risonanza o che, nella cornice del secolo
scorso, patisce la prossimità di altri, più squillanti, nomi: Leo
Strauss, Gershom Scholem, Jacob Taubes, per dirne alcuni. Uno sguardo
più in profondità lo inquadra, al contrario, come uno dei maggiori
specialisti della filosofia ebraica nel Novecento. Uno studioso tra i
più acuti, dal cui lavoro sono uscite soltanto cose essenziali,
autentiche, durature, dove l’intuizione prende la compattezza e il peso
specifico delle opere grandi, il rigore critico procede assieme
all’intelligenza e lo spessore del pensiero si accompagna alla nitidezza
della parola.
Quella di Shlomo Pines è una vicenda di
spostamenti. Charenton-le-Pont, alle porte di Parigi, poi Riga,
Archangelsk, Londra, Berlino, Heidelberg, Ginevra, infine Gerusalemme:
stazioni che ripropongono, ritagliato intorno a un uomo e con la forza
dell’esempio, il paradigma della migrazione ebraica. Di prossima origine
russa e di lontana ascendenza sefardita, Shlomo Pines eredita dal padre
– esperto di letteratura yiddish e dottore di ricerca alla Sorbonne –
la passione per lo studio e l’inclinazione letteraria. A pochi mesi
dalla nascita il primo spostamento, verso la Lettonia, dove Pines vive
l’infanzia, incrociando lo studio dell’ebraico alla pratica del russo e
dello yiddish. Una radice importante, quella nella cultura russa, che
rimarrà salda e spesso affiorante negli anni della scrittura
scientifica, tessera fondamentale nella costruzione dell’identità.
Identità che, nella percezione dello stesso Pines e almeno fino al 1940,
sarà sempre russo-ebraica.
In mezzo, tra il 1908 e il 1940, i
passaggi in Germania – dove Pines congiunge lo studio della filosofia e
dell’orientalistica, senza tuttavia mai legarsi alla koinè
ebraico-tedesca – e in Francia, dove insegna storia della scienza
arabo-islamica. Sull’ultima nave che salpa da Marsiglia prima
dell’occupazione nazista, Pines lascia la Francia alla volta della
Palestina, dove si svolge la sua storia ventennale di studioso e
professore di filosofia all’Università Ebraica di Gerusalemme. Tra
queste mura, nasce tutta l’opera matura: dall’edizione inglese della
Guida dei perplessi di Maimonide, in collaborazione con Leo Strauss,
autentico riferimento nella tradizione degli studi, ai molti testi sulla
filosofia e sulla scienza arabo-islamica, sulla filosofia medievale e
sulla mistica ebraica, fino agli sconfinamenti nel mondo greco-romano e
nel pensiero contemporaneo.
Sono diversi i volti che si
avvicendano tra le pagine di Pines, tutti oggetto di attenzione minuta e
di implacabile setaccio: da Leone Ebreo a Franz Rosenzweig, da Hasday
Crescas a Jean Bodin, da Yehudah ha-Lewi a Spinoza, da Flavio Giuseppe a
Kant, da Avicenna a Nietzsche. Un eclettismo che non è mai
compiacimento d’autore o fuggevole dilettantesimo, ma autentica,
molteplice e stratificata conoscenza, ampiezza di sguardo che abbraccia,
stereoscopicamente, l’ebraico, l’arabo, il siriaco, il persiano, il
turco, il copto, per non dire delle molte lingue europee, tutte
possedute in profondità.
Dai cinque volumi dei Collected Works,
che ne accolgono gli scritti in inglese e in francese, esce per il
pubblico italiano, un’ampia antologia di testi, Le metamorfosi della
libertà Tra Atene e Gerusalemme, traduzione e cura di Angela Guidi,
introduzione di Giorgio Agamben, Neri Pozza, pp. 456, euro 25,00). Nella
ricostruzione di un percorso di vita, oltre che di una fisionomia
intellettuale, il volume attraversa gli anni della formazione parigina e
quelli dell’insegnamento a Gerusalemme estraendone quattordici saggi,
mai tradotti prima in italiano, divisi in tre sezioni. Nella prima,
Intrecci e confusioni di culture, il tratto composito e plurale della
cultura ebraica, in costante scambio con la sapienza straniera, emerge
negli scritti sulla fine del tempo nel libro slavo di Enoch, sulla
convergenza tematica tra la qabbalah e certe vene della gnosi, sugli
incroci tra Maimonide e Tommaso D’Aquino.
La seconda sezione,
Judaica e Islamica, percorre gli spazi del pensiero medievale arabo ed
ebraico, mostrandone, ancora, interferenze e debiti reciproci, dentro
pagine che si muovono con disinvoltura tra la qabbalah, il Kuzari di
ha-Lewi e l’aristotelismo di Averroè. L’ultima divisione del testo ha
per titolo Percorsi della modernità e parla più a ridosso del tempo
presente: protagonisti ne sono il Trattato teologico-politico di
Spinoza, di cui è segnata la chiara ascendenza maimonidea e Nietzsche,
vistosa eccezione alla freddezza di Pines verso la cultura tedesca.
Ciò
che tiene insieme gli scritti raccolti in questo volume è l’idea di
ebraismo attorno cui Pines lavora i suoi concetti, dove è più evidente
il gesto disgregatore che accompagna la scrittura. Scomporre lise
configurazioni del pensiero, smuovere concetti sclerotizzati, denudare
abusate formule è quanto Pines persegue, soprattutto nella definizione
di ciò che è l’ebraismo.
L’identità ebraica – questo il cuneo del
pensiero di Shlomo Pines e la linea che attraversa l’intero volume – non
è mai definita, mai data una volta per tutte. È, all’opposto,
un’identità in viaggio e a confronto, che si costruisce solo per la via
della combinazione. Lo sa, per primo, lo stesso Pines che dello
sconfinare ha fatto esperienza di vita. Essere, da sempre, di faccia
all’altro è fonte di continui ripensamenti, di continue rotture della
forma. Quella ebraica, attraverso la lente di Pines, è un’identità in
contesto e in relazione, mai possesso stabile, sempre negoziata di
fronte al diverso. Attraverso continue rifrazioni e discontinuità si
smussa, sul testo di Pines, l’idea granitica della singolarità ebraica –
sostenuta spesso e più spesso rilanciata dentro e fuori il giudaismo –
lasciando il posto a un quadro plurimo e multipolare, dove l’intreccio
tra culture risulta in ricchezza di pensiero. Nessuna certezza, dunque,
nell’identità ebraica, solo un continuo proporsi della complessità.
Non
esiste, di conseguenza, una filosofia ebraica, esistono molte filosofie
ebraiche, diversamente profilate dal contatto con la cultura
greco-romana, araba, cristiano-europea. E, allargando il raggio, non
esiste un ebraismo, esistono molti ebraismi, ciascuno definito nella
contiguità rispetto a ciò che lo circonda.
Ha ragione Giorgio
Agamben a definire – nella densa introduzione al volume dove risalta il
tratto unificante delle pagine che seguono – questa traccia concettuale
«il teorema di Pines» e ad allargare l’orizzonte dalla cultura ebraica
alle altre, limando ogni pretesa di assolutezza e di centralità: «Non
esiste qualcosa come una cultura ebraica, una cultura araba, una cultura
italiana, concepite come un’unità storica; esiste un problema ebraico,
un problema arabo, un problema italiano». È, quella che emerge dalle
pagine di Pines, una frammentazione prospettica che sposta i confini
della verità assoluta, quando non li cancella del tutto, aprendo la
strada alla libertà del pensiero senza schema, pronto a disfarsi di ogni
idea trasmessa per tradizione, assunta per fede o imposta per forza.
Sono le stesse parole di Pines a trarre la conseguenza estrema, nel
saggio su Nietzsche che chiude il volume e schiude lo spazio del pensare
senza limiti: «La logica della libertà reclama la liberazione dalla
verità».