il manifesto Alias 10.1.16
Vedere è diventare puro sguardo
Edmond
Jabès. Tradotto per la prima volta integralmente, un classico
dell’umanesimo ebraico, privo di una vera «storia»: nonostante compaiano
uomini, fatti e memorie, a parlare è, infatti, la Voce dell’Altro
di Corrado Bologna
Il
Livre des questions di Edmond Jabès è un universo in espansione in cui
tutto appare immobile pur nella mutazione permanente. È uno sconfinato
oceano mosso da correnti subacquee, da maree che fanno emergere come
detriti, in punti anche lontanissimi, nomi, figure, idee, soprattutto
ombre e voci, e i silenzi che le uniscono e separano. Porgendo ascolto
all’interrogazione infinita di Jabès, che ha la cadenza ininterrotta,
ondosa del Talmud ed è spesso cesellata in versetti di sapore salmistico
(«E sono io a pensare, a parlare per te, a cercare e a stabilire la
cadenza / perché io sono scrittura / e tu ferita»; «Come sapere se
scrivo in versi o in prosa, annotava Reb Elati, io sono il ritmo»), si
giunge, con Dante e Leopardi nella mente, alla percezione di interminati
spazi, di sovrumani silenzi e di profondissima quiete, dunque alla
serena lettura del libro dell’universo, «al quale ha posto mano e cielo e
terra» (Paradiso, XXV 2): «Un libro nel quale l’universo non avesse
posto non sarebbe tale».
Ma l’universo, e il libro, di Jabès, sono
squassati da una crudeltà sottaciuta, negata dalla serenità armoniosa
dello stile: «Vi sono domande che sono come ferite senza risposte
possibili», scrive Alberto Folin – studioso che in numerosi saggi ha
illuminato la potenza speculativa della lingua lirica, soprattutto
leopardiana – nella preziosa postfazione al Libro delle interrogazioni
(Bompiani, pp. 1747, euro 60,00, originale a fronte) da lui tradotto in
italiano, per la prima volta interamente, con sensibile accompagnamento e
fedele eleganza ermeneutica in cui davvero, come voleva Benjamin,
sopravvive l’originale.
Nonostante l’incommensurabilità dello
stile e della sostanza di pensiero fra le due opere, direi che nel Libro
delle interrogazioni di Jabès sotto il continuo chiedere e chiedersi
vibra un dolore senza limiti, quello per la riduzione di un popolo a
cenere, lo stesso che attraversa l’intenso, bellissimo Libro dei
sussurri dell’armeno-rumeno Varujan Vosganian (tradotto da Keller di
Rovereto nel 2011). La domanda che si riverbera in tutte le epopee degli
Olocausti è un grido senza remissione: «La luce di Israele è un grido
all’infinito».
«Non sento il grido, dice Sarah. Io sono il grido».
Chi parla è solo un’ombra, «Sarah Schwall, S. S.», colei che nella
sigla del nome porta, fatalmente, l’emblema dello sterminio, il destino
dell’orrore irriducibile a parola.
Fin dalla soglia d’ingresso
Yukel e Sarah, i due giovani amanti ebrei suicidi per sfuggire alla
violenza dell’Altro, si donano qualcosa, un nome e un grido: «Ti ho dato
il mio nome, Sarah, ed è una via senza uscita» – «Io grido. Io grido,
Yukel. Noi siamo l’innocenza del grido». Quello di Yukel e Sarah, i due
nomi la cui memoria punteggia il Libro delle interrogazioni, è il «grido
di dolore dell’universo», giacché «tutte le ombre dell’universo sono
grida». Ma è anche l’urlo della «“prima voce”, la sorgente della parola
articolata» che ogni essere umano emette nell’atto della nascita, come
suggerisce Vincenzo Vitiello nel bel saggio introduttivo.
Ed è la
domanda gridata da Giobbe di fronte al silenzio di Dio, e il singhiozzo
stravolto davanti alla Shoàh che cerca, come nei versi di Paul Celan, di
risillabare la parola sottratta al vuoto, «cavata al silenzio» quando
il terribile è avvenuto: «Una glottide, per / conservarla,
nell’universo. // Il Perduto, rosso, / di un filo di / pensiero. Alti /
diventati i lamenti / sopra questo, il lamento / sotto – di chi / il
suono?» (I dodici tovaglioli di Lichtenberg).
In Jabès il grido
dell’inizio è anche grido della fine, inchiesta sempre senza fondamento
intorno al cammino da compiere, che si conserva nei percorsi
innumerevoli del libro-labirinto: «Sei il grido perduto in cui mi
smarrisco. Ma sei anche, là dove nulla veglia, l’oblio dalle ceneri di
specchio»; «Dov’è il cammino? Il cammino è sempre da trovare. Un foglio
bianco è pieno di cammini. (…) Ciascun cammino ha il suo percorso. –
Altrimenti, non sarebbe un cammino» (e qui Folin divarica molto
sottilmente, nel francese chemin, gli italiani «cammino» e «percorso»).
Lungo
questo moltiplicarsi di cammini e di percorsi da nomade nel deserto
Jabès rovescia il progetto di autoreferenzialità della letteratura
sigillato da Mallarmé («Tutto, al mondo, esiste per compiersi in un
libro») e proclama invece, allegoricamente: «Il mondo esiste perché il
libro esiste». L’Essere stesso, silenziosa assenza verso cui senza pausa
sale l’interrogazione, è nel libro, è il Libro: «Se Dio è, è perché
Egli è nel libro». Anche il destino dell’uomo, dello scrittore, è
farsi-libro, divenire domanda, ritrovandosi di fronte all’infinito, alla
pagina bianca, mentre «le orme, la pista», sono «scomparse, sepolte»
nel deserto: «Essere nel libro. Apparire nel libro delle domande, farne
parte; portare la responsabilità di una parola o di una frase, di una
strofa o di un capitolo. Poter dichiarare: “Sono nel libro. Il libro è
il mio universo, il mio paese, il mio tetto e il mio enigma. Il libro è
il mio respiro e il mio riposo”».
Il libro delle questioni nasce
anche per riposare nell’esilio. Folin nel suo saggio conclusivo
sottolinea acutamente quanto conti, per Jabès, «la forma altamente
simbolica di un esodo dall’Egitto». Istintivamente, in questo ebreo di
lingua francese esiliato dall’Egitto che fu anche l’Alessandria degli
gnostici cristiani e del «nomade» Ungaretti, io sento anche l’eco
inespressa dell’africano Agostino e delle sue Confessioni, il primo,
altissimo Libro delle Interrogazioni gridate nell’esilio della nostra
«regione della dissomiglianza»: «Inquietum est cor nostrum. Il nostro
cuore è inquieto finché in te non trovi pace. Bisogna invocarti prima di
renderti lode? E bisogna invocarti prima di incontrarti? Come si può
invocarti senza conoscerti?». E Jabès, in un’intervista a Folin del
1985, qui ripresa in Appendice: «L’interrogazione del libro è
un’interrogazione d’inquietudine, di angoscia»; e nel Libro delle
interrogazioni: «Dove andrà il mondo senza Dio? Dove andrà la parola
priva d’eco, battuta dai flutti? (…) Attorno a noi, chi parla ancora? /
Laggiù, chi scrive ancora?».
La voce di Jabès è, in un solo gesto,
poetica e filosofica, religiosa e laicamente spirituale. Lo stesso
autore, parlando con Folin, riconobbe la metamorfosi della scrittura nel
lunghissimo ciclo delle Interrogazioni (sette parti, pubblicate fra il
1963 e il 1973): «Nei primi volumi domina il lirismo»; nell’ultimo libro
«la parola è talmente chiusa da identificarsi con un punto» (che
infatti è l’impronunciabile nome di Dio: El, o l’ultimo libro). Il libro
è uno e molteplice, cresce e si trasforma, contiene sé stesso e il
proliferare delle immagini che ne promanano: «Il libro non ha bisogno
dell’uomo per farsi; si fa suo tramite». La Voce che si accresce nelle
molte voci frammentarie, balenanti nel silenzio, le quali prendono
fulmineamente parola in colloquio fra loro, non è narrante ma
interrogante, non solo evoca ma dialoga, inquieta però piena di
speranza, giacché «se noi viviamo è perché sempre attendiamo qualcosa: e
questo qualcosa si può conoscerlo solo attraverso la domanda».
Non
c’è una vera «storia» nel Libro delle interrogazioni, nonostante
compaiano nomi di uomini e donne, fatti e memorie, fantasmi e oblio,
poiché a parlare è la Voce della Storia, dell’Altro: «“Lei è un
narratore”, mi aveva detto, un giorno, un amico. Come non esserlo,
quando la parola, l’immagine, intervengono ogni volta per farsi sentire
nel loro alone, quando la storia si costruisce per frammenti di
controstorie e il silenzio incombe sul mondo?».
Come per il Kafka
dei frammentari Otto quaderni in ottavo, anche per Jabès «vedere è
dimenticare ciò che si è visto», divenire puro sguardo, opporre alla
violenza della Storia una scrittura capace di resistere disperatamente
al nulla, e così «concedere alla morte di morire una buona volta» per
poter «nascere nella morte, essere la morte-nata»: «Ecco venuto il tempo
di difendere la nostra parola».