Il manifesto Alias 10.1.16
Schmitt, forme dell’Impero nella finis Europae
«Stato,
grande spazio, Nomos» da Adelphi. Il disorientamento del grande
giurista che aderì al nazismo in un mondo in cui la politica e il
diritto si erano ormai congedati dall’ancoraggio alla «terra»
di Sandro Mezzadra
Basata
su due raccolte pubblicate negli scorsi anni in Germania a cura di
Günter Maschke, esce ora da Adelphi un’ampia antologia di testi di Carl
Schmitt titolata Stato, grande spazio, nomos (a cura di Giovanni
Gurisatti, Adelphi, pp. 527, euro 60,00) che intende documentare sua la
produzione «internazionalistica», negli anni che precedono e seguono la
pubblicazione del Nomos della terra nel diritto internazionale dello
«Jus publicum europaeum». La ripresa della prima edizione del celebre
saggio dedicato a Il concetto del politico, datata 1927, ha più che
altro il senso di rendere evidente la cesura che nella riflessione di
Schmitt si determina quando, nella seconda metà degli anni trenta, il
suo interesse comincia a rivolgersi in modo prioritario al diritto
internazionale – sulla base di una riflessione sul rapporto tra spazio e
diritto, «ordinamento» e «localizzazione», che troverà proprio nel
Nomos della terra la sua articolazione più sistematica.
Degli
scritti di Schmitt raccolti da Gurisatti – che portano in epilogo le
premesse di Günter Maschke all’edizione originale – scritti tutti già
editi in italiano, benché non facilmente reperibili, i più interessanti
sono due ampi studi pubblicati negli anni della seconda guerra mondiale:
il «contributo sul concetto di impero nel diritto internazionale»
intitolato L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale
(del 1941, ma la prima edizione è del ’39) e il saggio Mutamento di
struttura del diritto internazionale (del 1943), che consentono di
cogliere con precisione l’origine della riflessione di Schmitt sul
rapporto tra spazio e diritto nella temperie della guerra, tentando di
costruire un quadro d’insieme al cui interno collocare e legittimare le
politiche espansioniste tedesche.
L’adesione di Schmitt al nazismo
(sia pure in una peculiare interpretazione del suo significato e dei
suoi obiettivi) appare qui eclatante, e il lettore vi troverà ampie
tracce del suo noto antisemitismo; ma non perciò questi testi sono meno
interessanti. La seconda guerra mondiale, in cui «su tutto il pianeta si
lotta per l’ordinamento della terra intera», si presenta agli occhi di
Schmitt come momento decisivo all’interno di un processo di più lungo
periodo, caratterizzato dalla crisi dello Stato come unità essenziale di
riferimento e organizzazione della politica. È un punto che appare
chiaro proprio assumendo la prospettiva del diritto internazionale: le
«grandezze fautrici e artefici della coesistenza tra i popoli», si legge
nello studio dedicato al concetto di impero, «non sono più, come nel
XVIII e XIX secolo, Stati, bensì Reiche, ‘imperi’». E l’impero è la
forma in cui si presenta «il legame tra grande spazio, popolo e idea
politica», ovvero il principio fondamentale attorno a cui Schmitt
immagina l’articolazione di un nuovo nomos, di un nuovo ordinamento
complessivo su scala globale.
Il concetto di «grande spazio»,
collegato nella propaganda e nelle politiche naziste a quello di «spazio
vitale», indica per Schmitt in primo luogo un «coerente ‘spazio
operativo’»: è «un ambito della pianificazione, dell’organizzazione e
dell’attività umana che nasce da una tendenza generale dell’attuale
sviluppo». Oggi lo si definirebbe uno spazio logistico o
infrastrutturale, considerata l’importanza che Schmitt assegna –
all’origine dell’emergere della «economia dei grandi spazi» – alle
questioni relative allo «sfruttamento razionale della varietà degli
impianti per la produzione di energia» e alla necessaria «collaborazione
pianificata tra vaste reti di elettrodotti e gasdotti». Attorno allo
sviluppo di queste e altre infrastrutture prese avvio – a suo giudizio a
partire dalla prima guerra mondiale, «in un periodo di impotenza dello
Stato» – «un processo organizzativo di importanza generale» che non ha
ancora trovato una forma politica e giuridica adeguata. L’impero, nella
prospettiva di Schmitt, era precisamente questa forma, che stava
sorgendo nel vecchio continente al ritmo travolgente – e per lui, almeno
nel ’41, inarrestabile – in cui l’esercito tedesco avanzava nell’Europa
centrale e orientale.
La nozione di «spazio operativo» è
indubbiamente molto interessante (in particolare laddove si tenga conto
dell’enorme rilievo che il tema delle infrastrutture ebbe nell’avvio del
processo di integrazione europea dopo la guerra). Ma che cos’è un
«impero», per Schmitt? Imperi, per lui, «sono le potenze egemoni, la cui
idea politica s’irradia in un grande spazio determinato, e che per
questo spazio escludono per principio gli interventi di potenze
esterne». La «dottrina Monroe», proclamata dagli Stati Uniti nel 1823,
rappresentò in quegli anni per Schmitt un modello del principio di non
intervento, in cui individuava uno dei cardini della possibile nuova
articolazione del pianeta in una pluralità di «grandi spazi» imperiali.
Nel
saggio del 1943 sul Mutamento di struttura del diritto internazionale,
comprensibilmente più cauto rispetto alle sorti future della guerra,
un’attenzione particolare è quindi dedicata allo «sconfinamento» degli
Stati Uniti, al «passaggio dalla terra al mare» delle pretese egemoniche
del «nuovo Occidente». Già costretta a fronteggiare a Oriente
l’«universalismo» rivoluzionario della Russia sovietica, la Germania si
trovava ora, dopo l’intervento americano, a fare i conti con una
politica espansionista di tipo nuovo, il cui carattere «marittimo» e la
cui tendenza globale non erano riconducibili al progetto schmittiano dei
«grandi spazi», saldamente ancorato al primato della «terra».
Questo
primato della «terra», la «casa» della politica e del diritto opposta
alla «nave» che solca i «mari» della tecnica, sarebbe rimasto costante
negli scritti di Schmitt all’indomani della seconda guerra mondiale, di
cui il lettore può trovare un’ampia selezione in Stato, grande spazio,
nomos. Di nuovo, non mancano testi di indubbio interesse, come ad
esempio il Dialogo sul partigiano (del 1970) con il maoista Joachim
Schickel o il lungo saggio dedicato a Clausewitz come pensatore politico
(del 1967). Ma in particolare, leggendo gli interventi più direttamente
legati ai temi del Nomos della terra è difficile sottrarsi
all’impressione che Schmitt, come scrive Gurisatti nella sua
introduzione, smarrisca qui «la leggendaria vocazione per le
‘formulazioni nette’, limitandosi ad accenni, allusioni, esigenze,
auspici».
I toni di Schmitt si fanno malinconici, la sconfitta
della Germania nella seconda guerra mondiale si sovrappone alla finis
Europae in uno scenario complessivamente contraddistinto dalla cifra del
«tramonto». La radicata ostilità di Schmitt all’«universalismo»
anglo-americano può certo regalare qualche battuta corrosiva
sull’«umanitarismo» come copertura della politica di potenza, così come
le sue analisi del «nichilismo della tecnica» potranno apparire di tanto
in tanto preveggenti. Ma è evidente che il grande giurista (e il grande
contro-rivoluzionario, per usare una definizione che non gli sarebbe
dispiaciuta) faticava ormai a orientarsi in un mondo in cui la politica e
il diritto avevano preso congedo dall’ancoraggio alla «terra». Schmitt
rimane, secondo la tesi più volte avanzata da Carlo Galli, uno
straordinario interprete dell’epoca dello jus publicum europaeum e della
crisi della forma politica attorno a cui quell’epoca si è organizzata,
ovvero dello Stato moderno. I nuovi assemblaggi di «territorio, autorità
e diritti» (per citare il titolo di un libro di Saskia Sassen), che
cominciarono a emergere proprio con la fine della seconda guerra
mondiale per dispiegarsi compiutamente nel tempo della globalizzazione e
delle «reti», gli rimasero tuttavia sempre estranei e oscuri.
La
ricerca di un «nuovo nomos», di un nuovo pluralismo dei grandi spazi
nell’età del bipolarismo può ancora una volta risultare anticipatrice di
questioni che si presentano oggi, nella crisi dell’unilateralismo
statunitense. Ma Schmitt non è soltanto parco di indicazioni sulla
concreta organizzazione giuridica e politica di questi spazi: non si
liberò mai della convinzione che ogni grande spazio dovesse organizzarsi
attorno a una «terra» intesa come principio di una sostanziale
omogeneità culturale ed «etnica» – trasfigurazione, in fondo, di
quell’«idea politica» che negli anni della guerra vedeva incarnata nelle
politiche espansioniste del terzo Reich. Vecchie e nuove destre (e
magari anche qualche teorico «rosso-bruno») possono a buon diritto
trovare fonte di ispirazione in questo Schmitt; di certo non può
trovarne, invece, chi tenta di ripensare la stessa articolazione degli
spazi politici e giuridici (di quello europeo in primo luogo) a fronte
delle inedite condizioni di mobilità in cui si gioca nel nostro presente
la reinvenzione del nesso tra libertà e uguaglianza.