Il manifesto Alias 10.1.16
Jacob von Huexküll, la biologia sfida il pensiero filosofico sulla soggettività
Tradotto per la prima volta «Biologia teoretica», scritto da Jacob von Uexkull nel 1920-'28
Il
capolavoro dello straordinario biologo che fornì a Heidegger, con il
quale non sarebbe stato d’accordo, le basi delle sue analisi su ciò che
distingue la vita animale da quella umana
di Massimiliano De Villa
Le
scienze della vita hanno una storia segnata da tensioni del tutto
peculiari. Ogni volta che si manifesta una tendenza riduzionistica
mirata in qualche modo a togliere alla biologia l’idea di una qualche
sua eccedenza rispetto al dominio delle scienze fisico-chimiche, si fa
subito avanti, all’interno della scienza stessa, una sorta di
resistenza, una specie di contromovimento tutto mirato a salvaguardare
la specificità della vita, il suo essere non del tutto traducibile
dentro la legalità della fisica e della chimica: il suo richiedere,
cioè, una concettualità, un linguaggio e una forma di discorso che non
possono mai essere del tutto tradotti dentro le parole, i concetti e le
pratiche discorsive delle scienze che si occupano del non vivente.
Significativa
e emblematica, in questo senso, è la convinzione di Kant circa il fatto
che la vita, per quanto non possa essere compresa a partire da istanze
che trascendono il mondo della natura, non può però essere oggetto di
scienza nel senso proprio del termine. Per Kant, infatti, nelle scienze
della natura c’è tanta scienza a seconda di quanta matematica esse
contengono. Da qui la drammatica conclusione per cui la vita, non
essendo matematizzabile, non può che rimanere un mistero, un alcunché di
mai davvero compreso e comprensibile: è infatti inutile anche solo
sperare, scrive Kant nella Critica del Giudizio, la nascita di un Newton
del filo d’erba, ovvero che si possa dare esplicazione scientifica
attraverso leggi del fatto stesso della vita.
Il problema non
coinvolge, però, solo la filosofia. Un biologo ortodosso come Ernst Mayr
si è impegnato a dimostrare come sia non solo possibile ma necessario
essere, relativamente alla biologia, allo stesso tempo antiriduzionisti e
antimetafisici; spiegare cioè la vita a partire dalla sua peculiarità
senza mai per questo trasgredire la legalità delle scienze della natura
di origine fisica e senza al contempo dover far ricorso a spiegazioni
che fuoriescano dall’orizzonte naturalistico in direzione di qualche
entità non naturale.
La questione, in realtà, va ben oltre la
biologia e l’epistemologia delle scienze della vita e riguarda il nostro
stesso rapporto con ciò che chiamiamo vita e in particolare con la vita
che noi stessi siamo. Non è un caso che la questione circa il modo
d’essere della vita in quanto tale e della differenza dunque tra la vita
animale e la vita umana giochi un ruolo decisivo nel costituirsi stesso
dell’antropologia filosofica da Kant, fino a Scheler, a Plessner, a
Gehlen giungendo, per fare un esempio dei giorni nostri, fino a Peter
Sloterdjik.
Lo stesso Heidegger sostenne in vari suoi testi che la
vita è quanto di più difficile e arduo ci sia da comprendere: non solo
più del nostro stesso esistere (tema, questo, a cui dedica, come noto,
la parte pubblicata di Essere e tempo), ma anche del divino stesso.
Pensare la vita in quanto tale, infatti – sia essa quella di un
batterio, di una farfalla o del nostro vicino di casa – significa
pensare, a un tempo, qualcosa che ci riguarda direttamente, qualcosa che
noi stessi siamo, e, insieme, qualcosa che è altro da noi, una modalità
dell’essere nella quale non ci possiamo immediatamente identificare:
una vita, o, per meglio dire, un’infinità di vite, nelle quali non ci è
dato di entrare.
Una difficoltà, questa, che Heidegger ha
avvertito anche se di essa non sembra affatto essersi liberato, come
testimonia uno dei corsi più straordinari fra quelli che sono stati
pubblicati dopo la sua morte, e cioè il corso del semestre invernale
1929–30 intitolato I concetti fondamentali della metafisica. Qui
Heidegger presenta le tre famose tesi discutendo le quali intende
affrontare la questione del vivente: 1. la pietra è priva di mondo; 2.
l’animale è povero di mondo; 3. l’uomo è formatore di mondo.
Se da
una parte la differenza tra il modo d’essere della pietra e quello
dell’uomo è segnata da una cesura che consente l’individuazione chiara
ed esplicita di modi d’essere radicalmente eterogenei l’uno rispetto
all’altro, la differenza tra uomo e animale è invece segnata da una
straordinaria ambiguità, in un percorso che non può non apparire, se
appena ci si sofferma sul concetto stesso di povertà, come aporetico.
Le
analisi che Heidegger propone sul modo d’essere dell’animale, trovano
per molti versi il loro fondamento scientifico nel lavoro di uno
straordinario biologo attivo fra la fine dell’Ottocento e i primi anni
del Novecento, Jacob von Uexküll, del quale è stata ora tradotta in
italiano l’opera da molti considerata come il suo capolavoro, Biologia
teoretica (a cura e con introduzione di Luca Guidetti, pp. LXII-286,
Quodlibet, 2015, euro 32,00), uscita in prima edizione nel 1920 e in
seconda edizione nel 1928, quindi subito a ridosso di Essere e tempo e
subito prima del corso sui concetti della metafisica.
Ma Uexküll
non si sarebbe affatto riconosciuto nel discorso di Heidegger, che nel
tracciare in modo netto la discontinuità con l’animale attribuisce
infatti all’uomo un mondo caratterizzato dall’apertura del senso, mentre
l’animale sarebbe chiuso entro un cerchio ambientale determinato in
termini puramente istintuali. Per l’animale, cioè, secondo Heidegger non
esistono oggetti, cose, altri viventi con cui entrare in relazione: il
mondo dell’animale (ma sarebbe meglio dire il suo non-mondo) è fatto
solo di ciò che è in grado di disinibire il suo istinto.
Per
Uexküll, invece, tanto l’animale quanto l’uomo – sta qui la differenza
radicale con Heidegger – sono soggetti, sono cioè strutture in grado di
mettersi in relazione con la realtà in modo costruttivo: modi d’essere
certo profondamente diversi, ma per i quali il mondo è sempre connesso
all’ambiente specie-specifico dentro il quale agiscono. La sfida della
biologia è proprio questa, secondo Uexküll: indagare le relazioni dei
soggetti non umani rispetto al mondo, il modo in cui essi costituiscono
la propria oggettualità, le strutture attraverso cui organizzano la
realtà.
Non si tratta, secondo Uexküll, né di pensare l’uomo a
partire dall’animale, né l’animale a partire dall’uomo, ma di
riconoscere, questo sì, che tutti i viventi sono modi d’essere specifici
che si distinguono non perché gli uni subiscono la realtà e gli altri
invece la formano, ma per il diverso modo in cui tutti organizzano, a
partire da se stessi, e dunque come soggetti, il loro mondo-ambiente.
Non esiste per Uexküll una realtà assoluta, così come non esiste una
soggettività assoluta o un’oggettività assoluta: «Ogni realtà è
apparenza soggettiva – scrive nell’Introduzione al suo saggio – questo
deve costituire la grande e fondamentale conoscenza anche della
biologia». Dunque, la sua è una radicalizzazione in senso naturalistico
del trascendentalismo kantiano: se merito di Kant è stato infatti l’aver
mostrato in che senso gli oggetti siano costituiti a partire dalle
forme impresse dal soggetto, compito della biologia, secondo Uexküll, è
mostrare i diversi modi in cui i diversi soggetti, e dunque non solo
l’uomo, ma tutti i viventi, a partire dalle loro caratteristiche
peculiari e dall’ambiente che è proprio a ciascuna specie, costruiscono
essi stessi l’oggettualità di fronte alla quale sono posti come
soggetti. È qui, probabilmente, in questa radicale
deantropomorfizzazione della nozione di soggetto, e dunque nella
sottrazione all’umano del privilegio della soggettività, che la biologia
di Uexküll costituisce ancora una sfida per il pensiero filosofico.