il manifesto 5.1.16
Sinistra prigioniera del tempo breve
L’unità di ciò che c’è è il punto di partenza. Ma senza lungimiranza e pensieri lunghi, c’è il rischio di nuove divisioni e il persistere dell’irrilevanza
di Paolo Favilli
Lo scrittore polacco Ryszard Kapuscinski è riuscito a trasformare il genere giornalistico del reportage in alta letteratura, cioè in una scrittura capace di «vedere di più» nelle pieghe degli svolgimenti quotidiani. Ha potuto farlo perché viaggiava con Erodoto. Riusciva a «varcare le frontiere del tempo», sono le sue parole, proprio perché intratteneva un dialogo continuo con uno dei padri della storiografia occidentale.
Chi non si pone il problema di varcare queste frontiere, chi pensa che «la storia altro non sia che la cronaca» è un «provinciale del tempo», limitato come un «provinciale dello spazio». Il «provincialismo temporale», dice ancora Kapuscinski, è un luogo particolarmente frequentato dai «politici furbi», perché non necessita di pensieri lunghi. Un luogo ostile ai «politici intelligenti», che hanno la necessità di «pensare» oltre il tempo della «cronaca» (della tattica) la realtà che vogliono cambiare.
La costruzione di quella che è stata chiamata «casa comune» della sinistra è, appunto, questione che solo con i «pensieri lunghi» può essere affrontata.
Non esiste «a sinistra», infatti, alcuna ampia prateria aperta a nostre immaginarie scorrerie. Ci sono soltanto sentieri impervi ed in gran parte inesplorati che non promettono, in tempi brevi, alcun particolare successo di rapidi avanzamenti.
Condizione necessaria perché il faticoso e stretto sentiero possa aprirsi a spazi più ampi è che non ne vengano abbandonate le coordinate profonde una volta che si è iniziato a percorrerlo.
Il nostro cammino comune è cominciato con l’esperienza dell’«Altra Europa per Tsipras». Ho già citato, allora, una delle coordinate enunciata da Marco Revelli al momento di tirare le fila di quell’esperienza. Credo sia di particolare attualità. Revelli, dunque, riflettendo in particolare sul ruolo della «task force di Rosa (Rinaldi, nda)» essenziale per la raccolta delle firme in Val d’Aosta, e in genere sui contributi di tutte le «identità» coinvolte nell’operazione, concludeva: «… dovremmo proporci, d’ora in avanti, di non smarrirne neppure uno, per settarismo, supponenza, trascuratezza». Per «provincialismo temporale», potremmo aggiungere, con Kapuscinski, per «furbizia».
È ovvio che la «furbizia» non è necessariamente un difetto in politica. Togliatti in un’occasione ha definito il Pci puer robustus et malitiosus. La manovra tattica, il comportamento malitiosus era, però, funzionale al suo essere robustus, sul piano della teoria, sul piano della cultura politica, sul piano dei numeri.
Un momento, dunque, della grande politica. Aspetti di cui il processo di costruzione del «nuovo soggetto» è del tutto privo.
In tale processo l’unità di quello che c’è («non … smarrirne nemmeno uno…») è precondizione essenziale di un obbiettivo che sia davvero «nuovo» e non «novello», spuma di superficie, senza corpo, senza struttura che possa sorreggere un reale processo di maturazione. Ed invece si è perso subito, in piena coscienza e con «furbizia», il contesto che aveva reso possibile la «task force di Rosa».
Il «provincialismo temporale» spinge a massimizzare nell’immediato una rendita di posizione. Di qui la tentazione di utilizzare la forza e la visibilità di un gruppo parlamentare, frutto drogato di un meccanismo elettorale scomparso, per indirizzare il processo in corso verso gli esiti desiderati. Su tali basi, però, gli esiti non potranno essere che «minoritari», con buona pace di coloro che hanno usato e continuano ad usare il termine come arma contundente.
Senza un’ulteriore e profonda riflessione, infatti, andremo verso nuove divisioni e conflitti e resteremo ancora per tempi imprevedibili nell’attuale stato di irrilevanza. A meno che non si pensi che la via d’uscita dal «minoritarismo» sia l’approdo confortevole a un centrosinistra «buono» come lo era quello di Bersani, prima che il corpo «estraneo» del renzismo non ne mutasse i geni.
D’altra parte il fatto che questa tesi, tra il detto e il non detto, continui ad essere presente nelle pieghe della discussione sul «nuovo soggetto politico», è indice certo della miseria analitica con cui dobbiamo fare i conti. Indice certo di «provincialismo temporale», di scomparsa dei tempi lunghi e delle ragioni sistemiche della regressione.
C’è poi un’altra forma di «provincialismo temporale», quella da cui derivano le sconsolate perorazioni a tirare una riga definitiva su tutto ciò che esiste di organizzato a sinistra per ripartire da zero, dal «basso», da «nuove generazioni».
Il tempo attuale, il tempo della politica è, in realtà, momento in cui convergono temporalità diverse, intrecciate inestricabilmente. Non c’è nessun tempo lineare sul quale possano separarsi nettamente le rotture dalle continuità, comprese quelle generazionali.
Di tabulae rasae, di big-bang, di ripartenze, è piena la vicenda che ci ha condotti all’odierna irrilevanza. È tempo che ognuno faccia i conti davvero con le proprie responsabilità. Voglio credere (sperare) che anche dalla parte dei «furbi» possano svilupparsi (ri)pensamenti «intelligenti».