sabato 30 gennaio 2016

il manifesto 30.1.16
Il lungo viaggio di Joyce Lussu
Trieste Film Festival. Nel documentario di Marcella Piccinini "La mia casa e i miei coinquilini", un melange di domestico e politico
di Maria Grosso

Tic tic tic. Battiti del cuore di Joyce Lussu ritrovati nell’orologio a cucù della sua casa di Fermo nelle Marche. Tic tic tic. Entusiasti e disincantati, decisissimi e autocritici, avventurosamente umani, sembrano forse chiamarci, irradiarsi irresistibilmente da lei a noi, quasi a dirci che il meglio del ‘900, secolo limitrofo e lontanissimo, di cui è stata geniale conoscitrice e fabbricatrice, è ancora vivo e per noi tangibile. Tracce di lei, dei suoi gesti, dell’eco di chi ha amato lungo l’abissale flusso della sua esistenza: rinvenute anche in un abito chiaro e scarpe nere col tacco anni ‘40, accanto a una valigia in cuoio con sopra un cappello da uomo, nel fischio di infiniti treni, su una brocca bianca, in un messaggio in cifre minutissime da consegnare a Emilio Lussu … in una borsa di paglia appesa al muro, fra le pagine aperte di «Giustizia e Libertà», su un pennello da barba con impugnatura in legno, su una sedia a dondolo, nello spiccare il volo di un aereo e su babbucce orientali ricamate, su una paperetta giocattolo, su una macchina da scrivere e su una macinacaffé, negli anemoni resuscitati dai rifiuti del mercato di Parigi, in «un paio di scarpette rosse/a Buchenwald/ quasi nuove/perché i piedini dei bambini morti/non consumano le suole»… A condurre quelle che vedremo essere vere e proprie squadre di ricerca, Marcella Piccinini, regista di un desiderio di Joyce Lussu che è diventato poi un documentario, in questi giorni al Trieste FF. La cifra affascinante dell’indagine, oltre, appunto, a una minuta sensibilità per l’aura dell’oggetto (anche come nucleo di radianza che abbraccia tanta arte del secondo ‘900), un melange di domestico e politico, del più intimo sé e di relazione col mondo, ad attrarci fin dal titolo col suo «ossimoro» La mia casa e i miei coinquilini Il lungo viaggio di Joyce Lussu. Sì, perché il film sceglie di addentrarsi proprio nel modo unico in cui si declinano fra loro queste due componenti della vita di lei: quella pubblica, davvero da viaggiatrice esistenziale spericolata e notissima (come attivista antifascista, come femminista, poeta e traduttrice, come scopritrice di poeti rivoluzionari dell’allora «terzo mondo» …), e quella più privata, soltanto sua. Vedendolo, dunque, e scoprendone l’incipit, con il suo riferimento al respiro libertario dei suoi — intellettuali di origine marchigiana e inglese, costretti a fuggire dal fascismo in Svizzera, dove Joyce conoscerà anni fertilissimi – si potrà assaporare la bellezza e la profondità dell’apparente dicotomia del titolo. Ma non è soltanto questo. Perché La mia casa e i miei coinquilini … ha anche una bussola con un nord fortissimo dal quale non può prescindere, ossia gli scritti stessi di Joyce — venuta al mondo a Firenze nel 1912 col nome di Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, e in seguito, prima dell’oscuramento prodotto dal nazismo, divenuta studentessa di filosofia a Heidelberg, — tra cui Inventario delle cose certe e ovviamente Portrait, l’autobiografia pubblicata postuma nel 2012 (lei se ne era andata nel ‘98). Una presenza che il documentario incarna sia attraverso i video di Lussu anziana, col bellissimo viso di quercia scavata, lo chignon bianco vaporoso e la voce potente impastata dai lunghi anni a Roma (in particolare una intervista di Marco Bellocchio e Daniela Ceselli, ’94), sia grazie al traslato della voce over di Maya Sansa — attrice carissima al regista ora nominato, un po’angelo custode del progetto — che ce la restituisce giovane e fiera, magnifica in una soggettività ancora in divenire, eppure già incisiva e centrata. Penso così a Annie Ernaux e alla sua trama irriducibile di donna, una straniante se stessa in terza persona, che nel bellissimo Gli anni, emerge dal suo intreccio con 70 anni di storia francese, e rendo omaggio a J. L., a quella la stessa capacità di farsi non solo creatrice ma anche narratrice del nostro tracciato, sebbene qui l’io della prima persona sembri affiorare quasi senza tempo e senza mediazioni. «Io mai illusioni … C’è un sacco di gente come me e meglio di me, facciamo pure delle cose … tutto sommato i tedeschi li abbiamo sconfitti …». Ancora sull’amore con Emilio Lussu, antifascista, politico e scrittore, «Mi innamorai perdutamente di un uomo del terzo mondo che veniva da un villaggio di pastori tra le montagne della Sardegna … Un amore profondo e totale» (che sente fragile come un cristallo)… «Passammo attraverso la guerra mano nella mano» («una coppia raggiante» più facilmente scavalca controlli e frontiere)… «Emilio e io eravamo d’accordo circa la parità tra uomo e donna, anche se … i compagni stessi ancora non lo erano … la società italiana mi confinava in un ruolo riduttivo … la signora del ministro … sgomentata decisi di fuggire …». Conosce così la Sardegna del marito, con le sue macerie e le sue accabadore e, percorrendola tutta a cavallo, inchioda il maschilismo allora mai raccontato dei compagni, costringendoli a condurla dalle mogli che, pur tesserate, sono solo fantasmi in sezione; ancora è splendente nei cortei delle donne lavoratrici in casa e fuori, innanzi all’immane sottovalutazione dell’elettorato femminile compiuto dai partiti della sinistra («la luna s’è rotta./ …/ Preferiva le donne d’un tempo dalle pallide spalle /…/ Adesso ci sono donne che camminano svelte e dritte/ che prendono il tram e l’autobus per andare al lavoro». Ancora, come natura morta lasciata a marcire con insetti, come una bottiglia di latte abbandonata aperta a causa dello sfollamento, non teme di dirsi fragile di fronte «alla brutalità e all’umiliazione dell’aborto clandestino», e poi a confronto con la maternità pur desideratissima: Giovanni, oggi cruciale interlocutore del doc, nasce nel giugno del ’44, all’indomani della liberazione di Roma… Con Bellocchio in fuoricampo discute poi di memoria: guai a chi si siede su medaglie e Resistenza, parla del rischio non come sacrificio, ma come necessaria spinta contro il disumano, dello smarrimento per un mondo ancora tanto impregnato di guerra pur dopo il punto di non ritorno della seconda mondiale; seduta accanto a Hikmet racconta del loro primo incontro a Stoccolma, di una reciproca folgorazione che la conduce alla lunga traversata anche fisica della traduzione delle opere di lui, con relativa immersione nel contesto culturale del poeta, e col lasciar passare attraverso la sua pelle di donna sensibilissima una poesia massacrata dal regime turco, eppure resa ancora più «limpida» dalla impossibilità di dirsi. Per l’amico si farà anche Cupido in un pericoloso viaggio a favorirne il ricongiungimento con l’amata e il figlio; ancora viaggerà intrecciando parole e ponti con le voci rivoluzionarie del sud del mondo, come Gegherxuin e Agostinho Neto, a seminare l’azione dal basso di tutte le espropriate e gli espropriati da sé del pianeta. Pure, tra la rotta delle sue parole e la danza appassionante e poetica «improvvisata» dalla musica (Biscarini e Barontini), e dal montaggio (Paolo Marzoni con la regista), sul fiume dei materiali d’archivio (a coinvolgere tra gli altri Home movies, Cineteca sarda e Cineteca di Bologna), non si stancherà di interrogarsi sul ritorno a sé, sul lancinante dissidio «tra l’amore personale e la vita ideale», su quella che forse è stata anche la vanità di sentirsi dire, brava e coraggiosa, su un forsennato nomadismo interiore che però non hai mai smesso di desiderare di fare di ogni stanza dove ha vissuto una casa.
maria_​grosso_​dcl@​yahoo.​it