sabato 30 gennaio 2016

il manifesto 30.1.16
Karl Marx, il risveglio del giornalista
Una raccolta di articoli lucidi e appassionati composti dal filosofo di Treviri che tra il 1852 e il 1861 si trasferì a Londra e lavorò nella redazione della «New York Daily Tribune», dividendosi tra le ricerche per i «Grundrisse» e l’attività da reporter
di Fabrizio Denunzio

Qualunque soggetto volesse tornare a mettere piede sul campo delicatissimo e strategicamente determinante dell’organizzazione politica delle masse, lo dovrebbe fare tenendo sempre presente le indicazioni fornite da Gramsci in quella nota del primo quaderno del carcere dedicata a Hegel e l’associazionismo. Ciò che si trova di operativo in queste annotazioni si riferisce non tanto a Hegel ma, naturalmente a Marx: «Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica».
Sebbene limitate dalle condizioni storiche del tempo, teoria e prassi dell’organizzazione di Marx vengono riportate da Gramsci al medium egemone dell’Ottocento: il giornale. Tradotta e operativizzata nel linguaggio di una qualunque media theory, questa geniale osservazione non vuol dire altro che Marx, lavorando come giornalista, faceva esperienza delle masse nella forma di quella del pubblico di lettori e che riversava, tra gli altri, il modello organizzativo dell’industria culturale giornalistica su quello dell’organizzazione operaia. Tornare a mettere piede sul terreno organizzativo significa, allora, riflettere sul modo in cui i media strutturano i pubblici e li fidelizzano e su come, debitamente riutilizzato, questo stesso modo può rilanciare le forme politiche dell’associazionismo collettivo.
Una febbrile attività
L’abbrivio sembra essere proprio l’esperienza giornalistica di Marx. Se oggi possiamo e dobbiamo tornare a rifletterci non è solo in funzione della riflessione abbozzata velocemente su di essa da Lukács nel suo Il giovane Marx (da poco ripubblicato da Orthotes), ma è soprattutto grazie a Dal nostro corrispondente a Londra. Karl Marx giornalista per la New York Daily Tribune (traduzione e cura di G. Vintaloro, Corpo60, ebook, euro 6,99). Il testo riunisce una serie di articoli scelti tra tutti quelli che Marx scrisse come corrispondente da Londra per la testata newyorkese dal 1852 al 1861. Anni sicuramente non facili. Arrivato nella capitale inglese nell’agosto del 1849 dopo essere stato espulso dalla Francia, il filosofo e la sua famiglia, al pari di quelle operaie inglesi, soffrono fame, miseria e morte.
La spia prussiana che riesce a farsi ricevere in questo periodo nella loro casa di Soho rimane colpita dalla sporcizia e dalla fatiscenza del mobilio, più in genere, dalla completa assenza di ogni comodità. Sebbene nell’arco di questo drammatico decennio Marx riesca a trovare il tempo per recarsi alla biblioteca del British Museum – una serie di ricerche che culmineranno nella «febbrile» stesura dei Grundrisse tra il 1857 e il 1858 – il lavoro giornalistico resta il principale impegno, l’unica fonte di mantenimento.
Dal nostro corrispondente a Londra, torna a raccogliere le «prove» di questa attività. Il libro lo si compra e scarica on-line nei formati epub o mobi; se ne arricchisce la lettura cliccando sulle parole «linkate»; permette di collegarsi alle versioni originali degli articoli. È come se i «vecchi» contenuti rivoluzionari del Marx giornalista non potessero trovare miglior riconfigurazione se non implementati in supporti e forme di lettura «nuovi» completamente rivoluzionati dalla tecnologia digitale. Il che ha un suo senso.
A ben guardare, però, quando si tratta di media, in questo caso stampa ottocentesca ed ebook del nuovo millennio, la distanza temporale non sembra misurabile più di tanto in secoli. Nello stesso modo in cui il formato digitale dei libri porta in primo piano la modalità di appropriazione della conoscenza, sarebbe a dire la capacità di lettura incorporata nel lettore, così, col giornalismo, Marx si trova a dover fare i conti con la soggettività culturale del pubblico dei lettori della New York Daily Tribune.
Questioni di stile ed egemonia
Scrivendo articoli per il giornale deve, cioè, implicare nel momento produttivo della scrittura anche quello ricettivo del consumo. Si riferiva a questo Gramsci quando parlava del senso delle masse acquisto da Marx durante la sua attività giornalistica: rivolgersi a un pubblico comporta tanto catturarne l’attenzione quanto riprodurne il consenso dato alla lettura. Se la prima è una questione di stile, il secondo è un problema di egemonia. Se la prima è deputata a «incantare» il lettore, la seconda ha come compito quello di fidelizzarlo. In questo senso, riutilizzare politicamente la strutturazione in pubblico delle masse ai fini dell’associazionismo collettivo, vuol dire fondare il momento organizzativo sulla «narrazione» piuttosto che sulla propaganda. Ed è proprio nel registro stilistico-narrativo che si trova una delle più forti fonti d’interesse di questa raccolta. Prima di essa, però, se ne deve segnalare un’altra. Un po’ di questi articoli spesso, sul mercato editoriale italiano, li si è letti in raccolte tematiche, si pensi a quelli Sul Risorgimento Italiano o a India, Cina, Russia o, ancora, a La guerra civile negli Stati Uniti. Decontestualizzati dall’ambiente giornalistico in cui sono stati prodotti e svincolati dal pubblico a cui erano destinati (non dimentichiamolo, un certo tipo di lettori progressisti come quelli della New York Daily Tribune), questi articoli sono diventati saggi di storia rivolti, nel migliore dei casi, al movimento operaio e ai comunisti, nel peggiore, ai soli «marxologi». Dal nostro corrispondente a Londra, invece, ce li restituisce nel loro carattere primigenio, ci invia ad appropriarcene al di fuori delle «incrostazioni» che ogni tradizione culturale sedimenta, nel corso del tempo, sui testi originari che hanno contribuito a fondarla. Leggere i sedici articoli della raccolta come pezzi di giornale, da un lato li restituisce al loro essere «selvaggio», interventi pensati nella contingenza di eventi specifici (colonialismo e corruzione elettorale inglese; guerra di Crimea; imbrogli finanziari di Luigi Bonaparte; unità d’Italia), dall’altro potrebbe, esercizio ben più difficile, liberarli dalla loro «auraticità», rendendoli degni di quel disprezzo che Marx nutriva per essi nutrendolo, in genere, per quello stesso giornalismo che gli dava da mangiare ma che, al contempo, in modo del tutto inconsapevole, contribuiva a rivoluzionare definendone un modello militante animato dal dire la verità.
Miscelare la scrittura
È per questo motivo che le strategie stilistico-narrative del dire il vero, le cui gamme Marx scopre e sperimenta durante la sua attività di corrispondente da Londra, sono così importanti. Su questo punto si sofferma, con grande perizia, il curatore della raccolta al quale si deve, inoltre, il raffinato dettato della voce italiana di questo Marx giornalista. Vitaloro ci fa vedere come, nell’esercizio della sua professione, il filosofo tedesco passi dal periodare «piuttosto incerto e legnoso, con uno stile povero di subordinate e ricco di reminiscenze greco-romane tipiche dell’educazione ottocentesca centroeuropea» dei primi articoli a quello molto più curato nello scegliere aggettivi e incipit, nel miscelare le altezze della teoria con la trivialità della vita quotidiana degli ultimi interventi dei primi anni del 1860. Il tutto sempre puntellato da una profonda ironia sarcastica. Così, ad esempio, nell’articolo del 15 aprile 1854, Dichiarazione di guerra. Sulla storia della questione orientale, Marx scrive del tentativo fatto per risolvere la drammatica convivenza degli ebrei di Gerusalemme con le altre religioni: «Per accrescere la miseria di questi giudei, l’Inghilterra e la Prussia hanno nominato nel 1840 un vescovo anglicano a Gerusalemme, il cui scopo dichiarato era la loro conversione. Nel 1845 fu selvaggiamente picchiato e insultato da giudei, cristiani e turchi allo stesso modo. Si potrebbe dire che sia stata la prima e unica causa di unione tra tutte le religioni in Gerusalemme».
Queste qualità stilistico-narrative, però, hanno senso solo perché sono messe al servizio della verità, ossia sono strumenti che servono ad articolare al meglio il dire il vero, sono, in breve, subordinate a una visione etica del fare giornalismo: «Non siamo degli ammiratori della condotta militare di Sua Signoria, e abbiamo criticato liberamente le sue cantonate, ma la verità ci richiede di dire che i terribili mali in mezzo a cui i soldati in Crimea periscono non sono colpa sua, ma del sistema su cui si basa l’establishment di guerra britannico» (Il disastro britannico in Crimea. Il sistema militare britannico, 22 gennaio 1855).
Il vero e il falso
In questo senso Marx non arriva del tutto sprovvisto di competenze alla collaborazione con la New York Daily Tribune poiché il modello etico di un giornalismo militante affinché il vero venga detto lo aveva già iniziato a mettere a punto fin dai tempi della direzione della «Gazzetta renana» nell’ottobre del 1842, esperienza che si concluderà nel marzo del 1843 a causa della repressione prussiana. Il tutto porta inevitabilmente al problema dell’ideologia poiché il dire la verità, nel modello marxiano, comporta lo smascheramento della falsità di quelle idee con cui la classe dominante irretisce e soggioga la coscienza dei dominati. Questione annosa e cruciale. Per affrontarla proponiamo di leggere questi articoli marxiani non più come azioni dirette verso la presa di coscienza, bensì come tecniche di risveglio da sogni oscuri all’ombra dei quali ciclicamente la coscienza collettiva europea torna ad addormentarsi. Solo fatto in questo modo il giornalismo ha ancora senso.