il manifesto 29.1.16
Referendum, la tentazione del populista
di Massimo Villone
Curiosa
storia, la data del referendum sulla riforma costituzionale. Renzi ha
parlato di voto in ottobre. Ma rumors insistenti dicono che a palazzo
Chigi piacerebbe molto votare prima, magari insieme alle amministrative.
Tanto da incaricare un autorevole emissario di saggiare l’orientamento
della Corte di cassazione sul punto.
A quanto pare, chi ha con
arroganza scommesso tutto su un plebiscito teme un voto sulla riforma
solitario e lontano. E se gli italiani si fermassero a pensare? Se non
bastassero battute e tweet? È meno rischioso forzare la mano, fare
presto, e andare all’ammucchiata. Come bruciare i tempi referendari?
Dopo il prossimo voto della camera la legge sarà pubblicata — senza
promulgazione — nella Gazzetta Ufficiale. Entro i successivi tre mesi –
tempo massimo, non soglia minima — 500mila elettori, cinque consigli
regionali, o un quinto dei componenti di una camera potranno avanzare
richiesta di referendum. La Corte di cassazione ne valuterà la (sola)
legittimità. La disciplina è nella legge 352/1970.
Il trucco c’è.
Il voto della camera verrà entro metà aprile. Dopo, basteranno poche ore
per pubblicare il testo in Gazzetta Ufficiale e presentare in
Cassazione la richiesta di referendum da parte dei parlamentari, di
maggioranza e di opposizione. Per l’articolo 12, comma 3, della legge
352, la Corte «decide, con ordinanza, sulla legittimità della richiesta
entro 30 giorni». Se anche la Cassazione decidesse nell’ultimo giorno
utile, non andremmo oltre metà maggio. Il decreto di indizione del
referendum potrebbe poi seguire nel giro di poche ore, fissando per il
voto una data «in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno
successivo all’emanazione del decreto». E saremmo all’inizio di luglio, o
anche prima se la Cassazione si pronunciasse velocemente. Il gioco è
fatto.
Che fine fanno i tre mesi per la richiesta di referendum
previsti dall’articolo 138? Ci vediamo già inondati dai tweet con cui
l’ineffabile premier spiega ai sudditi che il referendum l’ha già
chiesto lui attraverso i parlamentari di maggioranza, e che dunque non
c’è bisogno di aspettare che lo chiedano anche altri. È uno spreco di
tempo e di soldi pubblici. Dunque, una paterna sollecitudine dell’uomo
di palazzo Chigi? Ma solo giocando al finto tonto si potrebbe ignorare
il diverso messaggio politico e istituzionale dato dalla provenienza
della richiesta. Che è poi un diritto direttamente attribuito dalla
Costituzione a soggetti diversi, ciascuno dei quali ha titolo a
esercitarlo entro il termine prescritto. Il termine di tre mesi può di
fatto ridursi solo nel caso in cui tutti i soggetti titolari — elettori,
parlamentari, consigli regionali — esercitino il proprio diritto in
tempi più brevi.
Vale anche per la raccolta delle firme. Votare
prima del decorso dei tre mesi o del minore tempo eventualmente
sufficiente per la raccolta significherebbe azzerare il diritto di
500mila elettori di chiedere il voto popolare. Lo ha sostenuto anche
Giuliano Amato da presidente del Consiglio nel 2001. E per il passato,
si è preferito aspettare il decorso del termine. Ma da questo governo —
la cui frequentazione del diritto costituzionale è labile e del tutto
occasionale — non possiamo certo attenderci attenzione per i precedenti.
Dunque, prepariamoci.
Come? Le firme sono raccolte su richiesta
di un comitato promotore. Anche tale richiesta può essere subito
presentata in Cassazione, per la pronuncia sulla legittimità.
L’eventuale successiva indizione del referendum andrebbe a interrompere
il subprocedimento — a quel punto già aperto — di raccolta delle firme.
Il diritto di richiedere il referendum con la firma di 500mila elettori
viene direttamente dalla Costituzione. Si può dunque argomentare che la
richiesta di raccogliere le firme di per sé preclude una anticipata
indizione del referendum.
Il comitato — secondo la Corte
costituzionale — può sollevare conflitto tra poteri dello stato davanti
alla stessa Corte. E bene potrebbe farlo per il decreto di indizione
intempestivo. Se insistesse, il governo andrebbe al voto essendo in
corso un giudizio davanti alla Consulta. E non dimentichiamo che
l’indizione assume la forma di un decreto del presidente della
Repubblica. Nel gergo dei costituzionalisti, è atto sostanzialmente
governativo, e il governo ne decide i contenuti. Ma un presidente della
Repubblica minimamente arbitro dovrebbe pur avere qualche remora a
firmare un decreto che vanifica una raccolta di firme in corso,
predestinato a un giudizio per conflitto tra poteri.
Potrebbe
essere anche chiesta la sospensiva del decreto di indizione. Non è
specificamente prevista per il conflitto tra poteri, ma non mancano in
dottrina voci autorevoli nel senso che sia consentita, e le pronunce
della Corte non chiudono la porta. In ogni caso conta che basterebbero
la richiesta del comitato promotore e il ricorso alla Corte — che il
governo non può impedire — a porre ostacoli al voto referendario prima
dell’estate, e comunque a disvelare il trucco di una concomitanza
apparentemente normale e fortuita con le amministrative.
Si voti a
ottobre. L’agitazione disvela che la paura serpeggia nelle stanze del
potere. E se alla fine la vittoria non fosse sicura? Se il popolo
sovrano avesse un sussulto di orgoglio? Se Davide abbattesse Golia?
Comunque siano avvertiti, a palazzo Chigi. Le carte bollate sono già
pronte.