il manifesto 29.1.16
Suicidio a due velocità
In attesa di passare a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia
di Marco Bascetta
Abolire
Schengen per salvare Schengen. Il paradosso è servito. L’imponente
afflusso di migranti dal Medio Oriente e dall’Africa non sarebbe più
compatibile, sono in molti a pensarlo, con la libera circolazione
all’interno dell’Ue, di fatto già interrotta dalla decisione unilaterale
di diversi stati di ristabilire controlli alle frontiere.
Nessuno
ignora, tuttavia, che la fine di Schengen ostacolerebbe anche la
circolazione delle merci e della forza-lavoro (anche quella comunitaria)
assestando un serio colpo all’integrazione economica e al mercato
comune.
Una frontiera nazionale non la si può infatti
circoscrivere a una singola emergenza né ricondurre a una regola
generale condivisa. È, per definizione, affare della nazione che la
istituisce. A questa e solo a questa sono riconducibili i criteri e i
metodi di gestione del confine, la larghezza delle sue maglie, i suoi
principi di selezione.
Sul confine nazionale si arresta il diritto
comunitario. L’involuzione autoritaria in corso nei paesi dell’est
potrebbe, per esempio, sbarrare il passo ad altri fattori «inquinanti»,
quali attivisti transnazionali o altre persone «non grate». L’Unione si è
del resto rivelata piuttosto impotente nel contrastare sostanziali
deroghe ai principi della democrazia in alcuni dei suoi paesi membri.
Il
pericolo è evidente e fioriscono così le formule più varie per salvare
il trattato di Schengen da se stesso. Si spazia dall’istituzione di
un’area più ristretta di libera circolazione nordeuropea che trasferisce
l’idea dell’ Europa «a due velocità» a quella dell’Europa «a due
confini» (sancendo così definitivamente la frattura tra nord e sud e la
fine dell’Unione) fino all’ipotesi di sospendere l’accordo per due anni.
Quanto basta per renderlo un evanescente ricordo.
Non
sono che miserabili tentativi di dare una copertura europea alla
dilagante riscossa degli egoismi nazionali e all’incapacità di tenerli
sotto controllo. Dall’Olanda si propone la deportazione forzata dei
profughi verso la Turchia (un buco nero dentro al quale nessuno ha
interesse a gettare uno sguardo), mentre la Svezia annuncia 80.000
espulsioni via charter.
Missione impossibile, aldilà dei suoi
intenti propagandistici, destinata comunque a protrarsi per decenni.
Altro che «emergenza».
Alla fine la tempesta si abbatte sul reprobo per antonomasia, il governo della Grecia.
Che
la chiusura delle frontiere escludono di fatto dall’area Schengen dalla
quale Bruxelles minaccia di escluderla anche di diritto se non saprà
difendere come si deve il limes dell’Unione. Le pressioni erano partite
dalla ministra degli interni austriaca Johanna Miltk-Leitner che aveva
accusato la marina greca di non fare abbastanza per contrastare gli
sbarchi.
La risposta da Atene è stata netta: «Che dovremmo fare,
affondare le imbarcazioni stracolme di rifugiati?» Forse a Vienna
farebbe maggior comodo un governo di Alba Dorata, ben più adeguato a
svolgere questo genere di funzioni. Per la seconda volta in pochi mesi, è
in Grecia che lo stato in cui versa l’Unione europea, per non dire la
sua natura distorta e squilibrata, viene pienamente in luce. Nonché il
filo che lega la crisi dei debiti sovrani con quella dei migranti.
Intanto
i segni di imbarbarimento proliferano un po’ ovunque. Lasciando anche
da parte quei paesi dell’est che dichiarano apertamente la propria
divergenza dai modelli democratici occidentali, nella civile Danimarca
la ministra dell’immigrazione Inger Stojberg interpreta fieramente il
suo mandato con il compito di rendere la vita impossibile ai rifugiati
tramite drastiche restrizioni del diritto di asilo e sadiche vessazioni
quali il sequestro di tutti i beni in possesso degli immigrati che
eccedano il valore di 1.340 euro. Misura infame analoga a quella, ancor
più esosa, adottata dall’extracomunitaria Svizzera.
La Gran
Bretagna, sempre più blindata, accoglierebbe solo qualche migliaio di
minori non accompagnati, passati attraverso il filtro dell’Alto
commissariato per i rifugiati dell’Onu.
L’orrore procede per
slittamenti progressivi sempre più rapidi e inquietanti. E mentre tutto
questo apparato di discriminazioni e respingimenti viene spacciato come
strumento per sedare l’allarme dell’opinione pubblica ottiene il
risultato diametralmente contrario: quello di alimentarlo insieme
all’ostilità verso gli stranieri agendo come una implicita
legittimazione dei sentimenti xenofobi.
Non passa giorno che
banali episodi di vita quotidiana non si trasformino in eclatanti
allarmi terrorismo. In Germania, secondo gli organi di sorveglianza,
migliaia di attivisti dell’estrema destra sarebbero pronti ad azioni
violente contro i rifugiati.
A questa gestione «protezionista» della crisi se ne affianca però un’altra, tutto sommato meno ipocrita anche se complementare.
Se
ne fa interprete il capo economista della Deutsche Bank David
Folkerts-Landau secondo cui la discriminazione deve essere portata
dentro i confini dell’Unione. Il flusso migratorio suggerisce, a suo
parere, di abolire il salario minimo e il principio di uguale
retribuzione per uguale prestazione.
I rifugiati, insomma, nel
bisogno impellente di trovare lavoro in seguito alla negazione dei
sussidi, dovrebbero ottenere un salario inferiore a quello dei
lavoratori tedeschi. Questo bacino di forza lavoro a basso costo
consentirebbe allora di ricondurre in patria produzioni delocalizzate e
costituirebbe una formidabile attrattiva per gli investimenti.
Insomma
un ulteriore fattore a favore della competitività dell’economia
germanica. Una combinazione vincente di interesse nazionale e profitti.
Che scatenerebbe però aspri conflitti su un mercato del lavoro giocato
tutto al ribasso.
Cosicché sarà un delicato equilibrio tra
filtraggio dei migranti e bisogno di mano d’opera, necessariamente
regolato da un confine, a guidare la politica di Berlino, ma non a
tenere insieme l’Europa. Che mai è stata debole e instabile come lo è
oggi. E che con la fine di Schengen, in un modo o nell’altro, si avvia
verso l’insussistenza.