Corriere La Lettura 24.1.16
La natura umana
Sorrido, dunque sono
Nelle regioni del cervello le ragioni per cui siamo ciò che siamo
Il sorriso spontaneo, incontrollabile, è di natura sub-corticale e viene dalle regioni filogenetiche più antiche
Il sorriso forzato è invece di natura corticale, la sua esecuzione è interamente sotto il controllo della corteccia cerebrale
di Edoardo Boncinelli
Da
sempre l’uomo si è chiesto «Io chi sono?» o, come la mette Giacomo
Leopardi, «Ed io che sono?». La domanda ha attraversato i secoli e dato
luogo a miriadi di argomentazioni e di ipotesi. Per il momento però le
neuroscienze non hanno trovato alcuna risposta ragionevole a tale
interrogativo, anzi non hanno individuato niente che possa corrispondere
al nostro io. Tutto è divenuto ancora più attuale, quando si è visto
che alcune parti del mio cervello «sanno» prima di me quello che sto per
fare.
Mi accosterò all’argomento prendendo le mosse da un
fenomeno gentile, forse il più gentile: il sorriso. Anche se alcuni
mammiferi superiori sembrano capaci di ridere, solamente noi uomini
siamo in grado di sorridere. Il sorriso è un nostro segno distintivo,
pieno di grande espressività e capace di trasmettere segnali
inconfondibili, di non aggressività, di accoglienza e magari di
simpatia, ma anche di richiesta. Dal punto di vista dei meccanismi
d’esecuzione, esistono due tipi di sorriso. Uno forzato e parziale, che
coinvolge cioè solo alcuni muscoli del mento e delle guance e uno
spontaneo, totale e aperto, che coinvolge anche i muscoli detti
«periorbitali», cioè quelli che si trovano intorno agli occhi, che così
sembrano «ridere».
Una persona adulta normalmente sorride «a tutta
faccia» senza sforzo, ma talvolta può sorridere forzatamente,
coinvolgendo soltanto la parte bassa del viso, se le condizioni lo
impongono e lui o lei decidono di concedersi a un sorriso, anche non
spontaneo, che può avere una funzione sociale o essere semplicemente un
segno di imbarazzo. Questo tipo di sorriso, chiamiamolo forzato, è di
natura corticale; la sua esecuzione cioè è interamente sotto il
controllo della nostra corteccia cerebrale. Lo si può mettere in atto
più o meno bene — in fondo è parte della recitazione che la vita a volte
ci impone, e c’è chi è più bravo a metterlo in atto e chi meno — ma è
in ogni caso un’espressione della nostra corteccia cerebrale o, meglio,
della nostra «volontà cosciente».
Il sorriso spontaneo invece,
quello disarmante e seducente, in cui ci «sorride tutta la faccia», è di
natura sub-corticale, è controllato cioè dalle regioni cerebrali
filogeneticamente più antiche, che si trovano sotto la corteccia
cerebrale vera e propria, nella parte più interna del cervello, quella
che controlla l’emotività e i nostri comportamenti quotidiani che
possiamo definire, secondo i gusti, meno volontari o più automatici.
Le
regioni sub-corticali hanno anche il controllo del movimento e delle
funzioni vitali essenziali, dalla respirazione al mantenimento del
battito cardiaco, così che senza buona parte della corteccia cerebrale
si può vivere, ma un danno serio alla regione sub-corticale mette
gravemente a repentaglio la nostra stessa sopravvivenza. Con la
corteccia cerebrale, insomma, si ricorda, si pensa e si parla; mentre
con le regioni cerebrali sub-corticali si vive.
Le regioni
sub-corticali sono piuttosto vaste e differenziate, e non hanno tutte lo
stesso valore e le stesse funzioni. Controllano, infatti, molti altri
comportamenti elementari automatici o quasi automatici, come il
singhiozzo, lo sbadiglio, il colpo di tosse, lo starnuto, la risata
incoercibile, l’«arrossire» in volto, il batticuore o una smorfia di
disgusto, per non parlare del sonno e della veglia. Per esibire un
sorriso spontaneo sono probabilmente sufficienti le regioni
immediatamente sub-corticali, cioè adiacenti alla corteccia stessa, che
controllano anche l’espressione delle nostre emozioni. Va da sé che
sopprimere o anche soltanto trattenere un sorriso spontaneo è molto
difficile, mentre un sorriso forzato, di natura corticale, è quasi
interamente sotto il nostro controllo.
Il neonato non sorride
ancora, ma un paio di mesi dopo comincia a sorridere «a tutta faccia» e
questo cambiamento costituisce per un genitore o per un nonno — e questo
oggi è il mio caso — uno spettacolo indimenticabile. Si dice che il
primo sorriso del bambino o della bambina si abbozzi nel sonno, a
riprova della sua automaticità e della presumibile origine evolutiva. Un
bimbo che sorride è capace, infatti, di «disarmare» la mano di un
eventuale aggressore e spinge l’adulto che lo sta guardando a prestargli
attenzione e magari nutrirlo o difenderlo. Crescendo, il bambino o la
bambina imparano anche a mettere in atto un sorriso corticale, con tempi
e abilità diverse, e si avviano così a divenire adulti e soggetti
sociali maturi.
In condizioni normali i due tipi di sorriso
convivono, anche se alcune patologie cerebrali più o meno serie possono,
almeno transitoriamente, sopprimerne uno dei due senza sopprimere
l’altro.
Queste osservazioni e altre consimili ci suggeriscono
immediatamente la domanda: «Chi sono io?» o, se preferite, «Che è Io?»,
quello del sorriso forzato volontario o quello del sorriso spontaneo,
quello che vuole sorridere o quello che è, per così dire, costretto a
farlo? La prima risposta che viene alla mente è che io sono quello che
sorride perché vuole sorridere, mettendo in atto un comportamento
volontario, inscenato dalla corteccia cerebrale che possiede il
controllo superiore delle mie attività, controllo che passa quasi sempre
per una presa di coscienza e una volontà cosciente. Questo perché noi
diamo, anche senza accorgercene, molta importanza alla coscienza e alla
volontà cosciente, lasciando al «corpo» il compito di sbrigare le cose
«di poco conto», anche se queste ultime sono in grado, abbiamo visto, di
assicurarci la sopravvivenza. Scegliendo questa opzione, si dimentica
però il fatto che le mie regioni sub-corticali sono appunto mie, almeno
quanto è mia la volontà cosciente. Ciò è frutto delle nostre
impostazioni culturali e di millenarie scelte intellettuali direttamente
o indirettamente figlie di una scuola di pensiero che affonda le sue
radici nelle riflessioni dei filosofi dell’antica Grecia, e che è
passata quasi indenne attraverso secoli di pensiero cristiano. «Nel
nostro linguaggio è depositata un’intera mitologia», ha detto Ludwig
Wittgenstein. In tale ottica io sono la mia corteccia cerebrale e la sua
«capacità di intendere e di volere», identificata con la mia volontà
cosciente.
È abbastanza ovvio, detto di passaggio, che in questo
modo di ragionare la coscienza stessa s’identifica con la volontà
cosciente o, almeno, è così che quella si estrinseca in primo luogo.
Così
facendo si etichetta però implicitamente come non-Io, tutta l’attività
cerebrale di natura sub-corticale, per non parlare di quella rimanente
del sistema nervoso e del corpo stesso. Quest’opzione genera così almeno
due problemi di carattere generale: l’incapacità di comprendere molti
fenomeni del nostro modo di essere — quando si è sani e, a maggior
ragione, quando si è malati — e il fatto che quando si parla di cercare
noi stessi e di esplorare la nostra vera natura — incluso il venerabile
ma frusto motto nosce te ipsum — non si parla sempre della sola nostra
volontà cosciente, i cui contenuti sono chiaramente plasmati da usi e
costumi sociali e spesso figli e tributari di pregiudizi e di «mode
intellettuali» di ogni tipo, che è ben difficile considerare veramente
nostre e, ancor peggio, mie.
A questo si aggiunga il fatto che
quando è comparsa la corteccia cerebrale, all’inizio dell’evoluzione dei
mammiferi, e si è andata poi progressivamente espandendo fino alla
nostra condizione odierna, quella si è aggiunta alle regioni cerebrali
preesistenti e si è coordinata e, per così dire, interdigitata con esse,
senza che sia esistita mai una vera e propria cesura o si possa
individuare alcun punto di discontinuità reale. Noi siamo quindi tutto
ciò: corteccia cerebrale, regioni sub-corticali e connessioni essenziali
e irriducibili fra le due. Siamo allora un monoblocco unico, che abita
il nostro corpo. E se il mio corpo non mangia o non beve, io muoio — con
l’accompagnamento di visioni, di allucinazioni e di spettacolari
sdoppiamenti dell’immagine di me stesso — ma comunque muoio.