Corriere La Lettura 24.1.16
Italia immobile: il figlio dell’operaio fa ancora l’operaio
di Irene Brunetti
Che
cosa significa mobilità sociale? Il termine non è molto diffuso nel
linguaggio comune ma indica un fenomeno importante per tutti gli
individui. Come evidenzia il Rapporto Istat 2012, la mobilità sociale è
il processo che, in una data società, consente agli individui di
muoversi tra posizioni sociali diverse. I destini individuali possono
risentire degli squilibri delle posizioni di partenza. Ognuno di noi
nasce infatti in una certa famiglia e in un determinato contesto, ha
quindi una sua «origine sociale». Diventando adulto, costruisce una
famiglia e svolge un’occupazione, acquisisce cioè una «posizione
sociale» autonoma. Talvolta, questa risulta più elevata rispetto a
quella dei propri genitori, ma è anche possibile che sia inferiore: o
perché il reddito percepito è minore, o perché svolge un lavoro più
basso nella scala sociale. I figli possono quindi ereditare i vantaggi,
ma anche gli svantaggi associati alle posizioni dei loro padri.
Molti
sono gli indicatori che vengono utilizzati per misurare la posizione
sociale di un soggetto: il reddito, il livello di istruzione, la
ricchezza posseduta e la classe occupazionale. Quest’ultima, definita
come l’occupazione più alta nella scala sociale raggiunta sia dai padri
che dai figli, viene considerata un buon indicatore: permette infatti di
considerare sia il prestigio che la società attribuisce a ciascuna
occupazione, sia i possibili cambiamenti della struttura occupazionale.
Quanto
è mobile l’Italia da un punto di vista occupazionale? Per poter
rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato i dati forniti dalla
Banca d’Italia. La Banca permette l’accesso ai dati sulle indagini sui
bilanci delle famiglie italiane, indagini da cui si possono reperire
informazioni riguardanti le occupazioni svolte dai padri e dai figli
definiti «capifamiglia», che quindi vivono fuori dalla casa paterna. Le
classi occupazionali considerate sono sette: disoccupato, operaio,
piccolo imprenditore, lavoratore autonomo, impiegato o insegnante,
libero professionista e manager. Le occupazioni sono state classificate
sulla base del reddito medio legato a ciascuna di essa, e del prestigio
che la società vi assegna.
Per misurare la mobilità si è calcolata
la probabilità che ciascun figlio ha di raggiungere una classe
occupazionale uguale o diversa da quella del proprio padre, data
l’occupazione svolta dal padre stesso.
Il quadro che emerge è
tutt’altro che promettente: si osserva infatti un peggioramento delle
opportunità di riuscita occupazionale dei giovani e, per determinate
classi occupazionali, un aumento della persistenza da una generazione
all’altra, ad esempio per la classe operaia e impiegatizia. In
particolare i nati nei periodi 1967-1976 e 1977-1986 hanno un’elevata
probabilità di trovarsi in una classe occupazionale più bassa rispetto a
quella dei propri padri. Consideriamo due individui, il primo nato nel
periodo 1947-1956, e il secondo nato nel periodo 1967-1976, il cui padre
svolge un’occupazione da libero professionista. Il primo ha una
probabilità di svolgere un’occupazione più bassa nella scala sociale, ad
esempio essere insegnante o impiegato, pari al 15 per cento, mentre la
stessa probabilità per il secondo soggetto sale al 41 per cento. Si
osservi a questo proposito la visualizzazione: il flusso di colore
giallo, che rappresenta la probabilità di essere impiegato o insegnante,
nella sesta colonna, che a sua volta indica la professione del libero
professionista per il padre, va ampliandosi per la generazione più
giovane. Tale andamento suggerisce quindi un peggioramento nelle
opportunità di occupare una posizione migliore nella scala occupazionale
rispetto ai propri padri implicando quindi una più alta probabilità di
muoversi verso il basso.
Per le coorti più anziane vale invece
l’opposto: la probabilità di accedere a un’occupazione più elevata
rispetto a quella dei padri resta alta. Osserviamo la terza colonna,
dove il padre è un piccolo imprenditore: il flusso di colore azzurro
denota la probabilità per i figli di diventare liberi professionisti,
salendo così nella scala occupazionale. Per la generazione nata tra il
1947 e il 1956 tale probabilità è pari al 14 per cento. Rimane stabile
per la generazione nata tra il 1957 e 1966, ma inizia a diminuire
drasticamente per le generazioni più giovani fino a raggiungere un
livello vicino allo zero.
Emergono altri due fenomeni: la
crescente probabilità di accedere alla classe operaia e a quella
impiegatizia, e la maggiore difficoltà delle generazioni più giovani a
ricalcare le orme dei padri. Nel primo caso si osserva che la
probabilità che un figlio ha di diventare operaio avendo un padre
manager aumenta dal 4 per cento per i nati nel periodo 1947-1956 al 10,5
per cento per i nati nel periodo 1967-1976. Queste stesse probabilità
variano dal 36 al 47 per cento se il figlio rientra nella classe
impiegatizia. Nel secondo caso invece appare sempre meno probabile che
il figlio di un libero professionista svolga la stessa professione del
padre.
L’Italia mostra quindi da un lato un basso livello di
mobilità causato dall’aumento della persistenza in certe classi
occupazionali, e allo stesso tempo, un aumento della mobilità
discendente. Tra le cause, il peggioramento delle opportunità tra i più
giovani che può essere imputato sia a una minore equità nei processi di
allocazione delle persone nelle varie posizioni, sia ai cambiamenti
strutturali che il nostro sistema occupazionale ha subito negli ultimi
decenni.
Alle coorti più giovani non è permesso accedere a certe
occupazioni non tanto perché non ne hanno le opportunità, ma piuttosto
perché c’è meno richiesta dal lato della domanda di lavoro. L’incremento
della mobilità discendente può dare origine a diversi effetti, che
sembrano essere favoriti, paradossalmente, dalla crescita dei livelli di
istruzione dei giovani: venendo collocati in posizioni professionali
meno qualificate di quelle in cui erano i loro padri, a parità di
istruzione, assistono a una dispersione del loro capitale umano.