Corriere La Lettura 24.1.16
Walter Benjamin Il teologo dell’economia
L’attualità straordinaria di un pensatore che indicò nel capitalismo la religione della nostra epoca
Un culto basato sull’indebitamento generale che non conosce tregua né perdono e cancella la differenza tra il giorno e la notte
Tra i suoi sacerdoti c’è anche Marx, il cui socialismo ne è in fondo l’erede diretto
di Donatella Di Cesare
Il personaggio
Filosofo
e critico letterario, l’ebreo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) è una
delle figure intellettuali più originali del Novecento. Esule a Parigi
dopo l’avvento al potere di Hitler, si uccise in seguito all’invasione
della Francia, temendo di cadere nelle mani dei nazisti
Bibliografia
L’editore
Einaudi ha pubblicato tra il 2001 e il 2014 le Opere complete di Walter
Benjamin in otto volumi, a cura di Hermann Schweppenhäuser, Hellmut
Riediger, Enrico Ganni, Rolf Tiedemann. Nel 2015 è uscito, sempre da
Einaudi, il libro di Howard Eiland e Michael W. Jennings Walter
Benjamin. Una biografia critica (traduzione di Alvise La Rocca, pp. 695,
e 90). Da segnalare anche il volume di Uwe-Karsten Heye I Benjamin. Una
famiglia tedesca (traduzione di Margherita Carbonaro, Sellerio, pp.
333, e 18). In Francia è uscito l’anno scorso il saggio di Stéphane
Mosès Walter Benjamin et l’esprit de la modernité (Éditions du Cerf),
mentre quest’anno uscirà negli Stati Uniti il volume Walter Benjamin and
Theology , a cura di Colby Dickinson e Stéphane Symons (Fordham
University Press)
È la stella polare della filosofia
continentale. Ne traccia la rotta, ne indica la tendenza, la orienta. Da
tempo ormai fa quasi ombra a Heidegger e a Wittgenstein. Come se lui,
il figlio ribelle, il lucido sognatore, il filosofo malinconico, il
critico spietato della modernità, il profeta rivoluzionario che, come un
nuovo Isaia, aveva scelto di osservare il mondo dalla soglia del
giudizio ultimo, trovasse un riscatto postumo a più di settant’anni
dalla morte. Occhiali spessi, sguardo penetrante, espressione
interrogativa: non c’è quasi dipartimento di Filosofia, dall’Argentina
agli Stati Uniti, dalla Corea, al Giappone, all’Australia, in cui non si
stagli la sua foto. Ben riconoscibile, è lui: Walter Benjamin.
La
sua immagine è assurta a simbolo di un pensiero che resiste, che non si
lascia soffocare nella vuota analitica, né rinchiudere negli steccati
di una innocua ricostruzione storica, che non si adatta a diventare
normativo, né tanto meno si piega a elogiare le fantomatiche libertà del
progresso. Ecco perché nel nome di Benjamin si legge la promessa di una
filosofia capace di essere filologicamente rigorosa e, al tempo stesso,
aperta alla sperimentazione, in grado di descrivere i particolari
apparentemente più irrilevanti, senza per questo rinunciare alle visioni
ampie e ardite.
Ha contribuito al riscatto postumo di Benjamin
l’uscita dei suoi scritti presso l’editore tedesco Suhrkamp. In Italia
la pubblicazione delle Opere complete , avviata da Einaudi nel 2001, si è
conclusa nel 2014. La disponibilità degli scritti di Benjamin, tradotti
ormai in molte lingue, spiega l’aumento drastico degli studi, il
profluvio di monografie, articoli, saggi critici. Il che, peraltro, non
vuol dire che non vi siano motivi da scoprire. E in genere la ricerca,
in fondo frammentaria, dovrà ancora trovare i nessi segreti che tengono
insieme una filosofia più complessa di quanto si immagini, i legami,
talvolta sfuggenti, tra i suoi molteplici aspetti. Risponde già a questa
esigenza Walter Benjamin. Una biografia critica , di Howard Eiland e
Michael W. Jennings (Einaudi).
Ma che cosa rende Benjamin così
attuale nella sua dirompente inattualità? Perché i suoi scritti,
talvolta brevi frammenti, aneddoti autobiografici, lettere, serbano un
potenziale esplosivo? Al punto da indirizzare perfino la riflessione
contemporanea? Certo, contribuisce il suo straordinario stile, la prosa
costellata di immagini seducenti. Prediligendo i «passaggi», Benjamin ha
dischiuso alla filosofia ambiti inconsueti: dai nuovi mezzi di
comunicazione al cinema, dalla fotografia ai movimenti di avanguardia,
dalla vita nevrotica nella metropoli all’esistenza degli esclusi, dalla
letteratura per l’infanzia ai giocattoli, dal gioco d’azzardo
all’esperienza dell’hashish, al viaggio. Quel che emerge, però, sempre
più chiaramente, è che Benjamin, già molto presto, ha presagito gli
esiti del capitalismo, ne ha scrutato i segreti, gli arcana reconditi.
Che
un giorno la politica, scaduta a mera amministrazione, esercizio di
governance , si sarebbe dissolta nell’economia, è un pensiero che
Benjamin condivide con altri filosofi. Ma lui osa un passo ulteriore:
quella forma economica, divenuta globale, si sarebbe rivelata per quello
è: una religione. Non è forse il capitalismo una religione del debito?
Benjamin
è stato il primo grande teologo dell’economia nella modernità. Non ha
colto solo i legami strutturali fra teologia e politica, indagati negli
stessi anni anche da Carl Schmitt. Né si è limitato a ricostruire la
provenienza religiosa del capitalismo. Qui si misura, anzi, la sua
distanza da Max Weber, che nel capitalismo aveva indicato l’esito
dell’etica protestante. Per Benjamin le cose stanno diversamente: il
capitalismo non è una religione secolarizzata, bensì una religione in
senso stretto. Perciò non se ne comprenderebbe la portata, il ruolo e il
funzionamento, se non lo si considerasse come un fenomeno religioso.
Questa è la tesi delineata nel suo ormai celebre frammento del 1921
Capitalismo come religione , la cui riscoperta ha dato avvio, negli
ultimi anni, a una nuova riflessione sulla teologia economica. A
prendervi parte sono filosofi non di rado anche distanti fra loro, da
Peter Sloterdijk a Giorgio Agamben, da Slavoj Žižek a Thomas Macho, da
Norbert Bolz a Roberto Esposito — per ricordarne solo alcuni. Il che
conferma l’intuizione di Benjamin, che sembra assumere oggi ulteriore
validità.
Esistono alternative? Non appare forse il capitalismo il
nostro orizzonte ultimo e insuperabile? Questa società crede nel
capitalismo, lo accetta come proprio ineluttabile destino. E come nel
passato si pregavano gli dei, se ne indagava l’umore, se ne temeva il
volere, così oggi una società dichiaratamente illuminata e secolare è
pronta a offrire ogni sorta di sacrifici alle imponderabili potenze del
mercato.
«Il capitalismo — scrive Benjamin nel suo testo sibillino
— è una pura religione di culto, forse la più estrema che sia mai stata
data», dove il culto, che non sa né di teologia né di dogmatica, può
contare su una «durata permanente». Non c’è tregua né perdono. La pompa
sacrale del marketing, il rito del guadagno, il fasto del consumo, sono
inarrestabili. Non si distingue più tra il giorno e la notte là dove il
tempo è sempre e solo denaro. Il capitalismo è così un culto che ha
annullato persino la settimana, perché richiede una celebrazione
ossessiva. Apparentemente è sempre festa — e invece non lo è mai. Se il
culto è ininterrotto, è grazie all’apoteosi del debito, Schuld , che
nella sua «demoniaca ambiguità» in tedesco significa anche colpa. «Il
capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non lascia
espiare, ma colpevolizza indebitando». Se Marx aveva visto nel debito
pubblico il sigillo dell’era capitalistica, e in fondo il suo terribile
lascito ai popoli, Benjamin presagisce l’indebitamento planetario. Non
potrebbe essere diversamente per una religione, come il capitalismo, che
non permette salvezza né redenzione. Sotto il cielo del capitale resta
solo «disperazione cosmica». Perfino Dio sembra venir implicato nel
gorgo di questa colpa, nella rovina di questo debito.
Pur evitando
una «smisurata polemica universale», Benjamin punta l’indice contro il
cristianesimo che si è mutato nei secoli, convertendosi in capitalismo.
Ha ceduto cioè al paganesimo, quella tentazione che da sempre lo
affligge — e Benjamin avvicina le icone delle banconote alle immagini
sacre. Il capitalismo, questo nuovo paganesimo, è l’ordine in cui si
stagliano fato e sventura nella circolarità violenta e ripetitiva del
mito. Come interromperla?
Nietzsche, Freud, lo stesso Marx
appaiono agli occhi di Benjamin i «gran sacerdoti» del culto
capitalista, perché le loro teorie sono il prodotto di un potenziamento
del capitalismo — non ne costituiscono la rottura. Il socialismo di Marx
non è che l’erede diretto del capitalismo. È un socialismo che non
conosce Umkehr , che non sa di «inversione», né di rivolta né di
rivoluzione, e prosegue lungo il tragitto rettilineo truccato da
progresso.
Ma Umkehr è la traduzione tedesca dell’ebraico teshuvà ,
ritorno — un tornare indietro per andare avanti, una con-versione che è
una inversione di rotta, una interruzione. Marx, quel nipote di un
rabbino, sembrava averlo dimenticato. E così Benjamin guarda a Gustav
Landauer, l’ebreo anarchico, protagonista della Repubblica dei Consigli
di Monaco, che aveva scritto: Sozialismus ist Umkehr , il socialismo è
inversione, è cambiamento che spezza il «sempreuguale» della storia.
La
polemica di Benjamin investe la socialdemocrazia, questa idolatria
della modernizzazione, questa cattiva politica incapace — scrive in
Strada a senso unico — di darsi scadenze. Nel suo afflato escatologico
Benjamin guarda invece al limite estremo, lì dove si consumerà
l’apocalissi ultima del capitalismo. Che sia sul modello dello «sciopero
generale» di Sorel, o meglio, su quello dell’interruzione anarchica che
si impone nel Giubileo ebraico, la rivoluzione va ripensata.
Marx
aveva detto che le rivoluzioni sono le «locomotive» della storia. A
questa celebre immagine Benjamin oppone nelle sue Tesi sul concetto di
storia , scritte nel 1940, una figura speculare. «Forse le rivoluzioni
sono il freno d’emergenza azionato dal genere umano che viaggia sul
treno». La rivoluzione è una fenditura nella storia, è arresto, cesura,
interruzione nel permanere dell’insopportabile, nell’eterno ritorno
della catastrofe. Si comprende allora la prossimità di questo «outsider
di sinistra» — così Benjamin amava definirsi — alla fronda anarchica.
Come
per Landauer, anche per Benjamin la «rivoluzione» non è solo un
concetto politico. D’altronde la filigrana dei suoi scritti è un
vocabolario teologico, il filo rosso è il messianismo ebraico. Perciò la
rivoluzione non riguarda una salvezza dell’anima nell’aldilà, ma la
liberazione nella giustizia sociale adesso, jetzt . Quanto al Messia,
Benjamin non ha mai dimenticato quell’antico detto rabbinico: «Quando
verrà, cambierà nello stato del mondo solo qualcosa di impercettibile,
non lo trasformerà con la violenza, ma lo aggiusterà solo di
pochissimo».
Il capitalismo, nella sua sacralità, appare non
profanabile. Tentare, malgrado ciò, una profanazione? Non è la via
d’uscita a cui pensa Benjamin. Non si deve infatti fraintendere: la
critica al capitalismo non è una critica alla religione. E la sua
teologia, che per quanto eretica resta teologia, attira sempre più
l’attenzione degli interpreti per la sua portata sovversiva — come
mostrano gli studi più recenti.
L’ateismo di massa si riduce per
Benjamin alla ripetizione del culto capitalista, agevolato dalla perdita
di ogni contenuto utopico. In tal senso questo «teologo trasferito in
campo profano», come l’ha chiamato Scholem, è tra i primi a mettere
sotto accusa il vuoto progresso che non distingue tra una migliore
riproduzione della vita e una vita realizzata. Il capitalismo è fra
l’altro il culto di una emancipazione infelice. Così, accanto al
benessere e alla libertà, Benjamin rivendica la felicità.