domenica 24 gennaio 2016

Corriere La Lettura 24.1.16
Dylan Dog Tiziano Sclavi ha chiuso con il fumetto e i romanzi
Dopo 25 anni ha anche abbandonato la psicoanalisi (un farmaco costa meno e ha lo stesso effetto: nessuno)
Per paura non guida quasi più e non prenderà mai l’aereo
intervista di Antonio D’Orrico

Vent’anni fa intervistai Tiziano Sclavi perché Dylan Dog, il protagonista delle sue storie a fumetti, secondo per fama in Italia solo a Tex Willer, compiva dieci anni dalla prima uscita. All’epoca Sclavi non rilasciava interviste e si comportava un po’ come J. D. Salinger, lo scrittore del Giovane Holden , non si faceva vedere, non si faceva fotografare. L’intervista di oggi coincide con i trent’anni di Dylan Dog, ma è da tempo ormai che Sclavi non ne scrive più le avventure (che però vanno avanti da sole, sempre seguite da un pubblico numeroso e appassionato). La buona salute di Dylan Dog è testimoniata, tra l’altro, dalla pubblicazione in questi giorni di tre storie tra le più memorabili e sclaviane: La Quinta Stagione , disegnata da Luigi Piccatto (Bonelli Editore), Caccia alle streghe , disegnata da Piero Dall’Agnol, e Sette anime dannate , disegnata da Corrado Roi (entrambe per le edizioni Bao).
Oltre a Dylan Dog, Sclavi non scrive più romanzi (l’ultimo, del 2006, è Il tornado di valle Scuropasso ). Ha scelto il silenzio o, forse, al silenzio l’ha costretto la depressione che non lo ha abbandonato mai. L’intervista si svolge a casa sua, una villa discreta circondata da un parco, dentro un bosco vicino a Milano. C’è anche Cristina, la moglie di Sclavi (vent’anni fa quando gli chiesi chi era sua moglie, come l’aveva conosciuta, cosa faceva, mi rispose lapidario: «Mia moglie è la mia vita»). Ci sediamo su due divani insieme ai sette cani, amatissimi, che vivono in perenne simbiosi con lo scrittore.
All’inizio ci fu Edgar Allan Poe?
«L’ho letto che avevo sei anni, nel 1959. Lessi tutto quello che scrisse, perfino Genesi di un poema , la noiosissima storia del Corvo . Quando ero piccolo, mi piacevano tutte le storie misteriose, sanguinarie, le favole più truci. Le trovavo molto educative. Ora la mia nipotina ha addirittura paura a vedere l’innocuo Frozen».
Di Poe sentiva il fascino dell’uomo oltre che dello scrittore?
«C’era anche quello, il fascino di una vita dannata. Anch’io nel mio piccolo ho avuto una vita un po’ complicata. Soffro di depressione da sempre. Poi sono un alcolista, un alcolista che non beve, però uno rimane alcolista per tutta la vita. È stato difficile vivere per me».
Leggere e scrivere l’hanno aiutata o hanno peggiorato le cose?
«Sono stati un aiuto. Scrivere è una grande terapia che ti permette, tra l’altro, di risparmiare sull’analista. Però io non ho risparmiato nemmeno su quello. Sono stato in analisi per venticinque anni. Un enorme spreco di tempo e di denaro. Un errore gigantesco, il più grande sbaglio della mia vita».
In venticinque anni avrà cambiato tanti analisti.
«Solo due. Il primo è morto dopo cinque anni che andavo da lui. Mi trovavo bene. Mi è crollato il mondo addosso».
Si direbbe in termini non proprio freudiani (o forse sì) che è stata pura sfiga.
«Il mio primo psicoanalista, tra l’altro, era lo zio di Cristina, mia moglie».
Ci sarebbe da osservare qualcosa, psicoanaliticamente parlando, a questo proposito.
«È solo una coincidenza. All’epoca non conoscevo Cristina. Ma forse, come dice mia moglie, non è stata una coincidenza perché io ero inavvicinabile per chi non fosse stato un po’ introdotto nel mio mondo di allora. Se non avessi saputo che era la nipote del mio psicoanalista, probabilmente non le avrei mai dato confidenza».
Mi parli della sua analisi.
«La mia analisi è stata perfettamente ortodossa. L’analista è sempre stato di scuola freudiana (anche la seconda, che era una donna). Mi sono sempre disteso, come da tradizione viennese, sul lettino. Le sedute duravano i quarantacinque minuti canonici. Ci ho creduto per molto tempo, nell’analisi. Sono stato come Woody Allen (uno dei miti della mia vita). Sono stato fedele, innamorato. Ma poi alla fine ho capito che un buon psicofarmaco costa infinitamente meno e fa lo stesso effetto. Cioè niente. Quando ho compiuto cinquant’anni, ho deciso che quella stagione della mia vita andava chiusa. E me ne sono andato».
Il suo forse era un caso di quella che Freud definiva «analisi interminabile».
«Non so niente di queste cose a livello teorico. Il primo psicoanalista alla prima seduta mi ha dato alcune regole: “Lei non parlerà dell’analisi fuori di qui e non leggerà niente di analisi”. Io ho obbedito».
Lei non ha quindi letto «Lamento di Portnoy» di Roth?
«No».
Peccato, è un romanzo meraviglioso. Le regole del suo primo analista consideriamole prescritte e lei si legga «Portnoy» perché si divertirà moltissimo.
«Nella mia vita ho letto di tutto. Ora mi sono specializzato. Leggo solo thriller. Se non c’è il mistero, non sono contento. Mi piace quando c’è un mistero da risolvere, un assassino da scoprire. Leggo anche quei pochissimi romanzi di fantasmi che escono, che mi fanno molta paura, ma non esce quasi niente».
Non legge romanzi horror?
«No, a parte il grande Stephen King. I miei preferiti di King sono Misery , It che è una Divina Commedia dell’orrore, L’ombra dello scorpione . Ma sono un lettore lentissimo. È una cosa triste il numero di libri che possiamo leggere in una vita. Se la vita è lunga, uno può leggere al massimo tremila libri. Credo di aver già raggiunto questo tetto e perciò morirò presto».
Carlo Fruttero è stato un suo grande fan.
«Lesse un mio romanzo, Le etichette delle camicie , e mi ha voluto alla Mondadori per il romanzo successivo. Era una persona eccezionale, piena d’ironia, era straordinario ascoltarlo. Mi sono piaciuti molto i romanzi di Fruttero e Lucentini: La donna della domenica , A che punto è la notte . E poi è loro il più bel titolo di racconto di fantasmi che c’è, Ti trovo un po’ pallida . Ed è bella anche la storia e non solo il titolo».
C’è un bellissimo romanzo di Fruttero e Lucentini ingiustamente un po’ dimenticato, «Il palio delle contrade morte», che è, tra l’altro, una stupenda storia di fantasmi.
«Non lo conosco, devo ordinarlo subito».
Pure Natalia Ginzburg era una sua fan.
«A vent’anni avevo mandato un mio romanzo, Tre , a vari editori. Lei mi telefonò a casa e mi disse che l’avrebbe preso per Einaudi, però doveva aspettare il parere degli altri lettori, in particolare il giudizio di Italo Calvino. E Calvino disse di no. La mia carriera è morta lì».
E non ha mai saputo perché Calvino disse no a «Tre»?
«No. Tra l’altro, amavo tantissimo Calvino come scrittore. Anche se, dopo quell’episodio, cominciai ad amarlo un po’ meno».
Chi è oggi il suo scrittore preferito?
«Il più grande scrittore vivente per me è John Grisham. Penso ai grandissimi racconti di Ritorno a Ford County . Il racconto del condannato a morte è una cosa... L’ultimo romanzo, L’avvocato canaglia , l’ho trovato magistrale».
E uno scrittore non vivente che è stato importante per lei?
«Buzzati è stato una mia grande passione. Ho anche un suo quadro, me l’ha lasciato in eredità Sergio Bonelli».
E Gianluigi Bonelli, il padre di Sergio, il creatore di Tex Willer, l’ha conosciuto?
«La prima volta che lo incontrai, tirò fuori una pistola, una pistola vera, una 38, e me la puntò al cuore. Poi la abbassò, levò i proiettili e me ne regalò uno. “Non ti sparo perché mi sei simpatico”, disse. Credo che parlasse sul serio. Era un tipo così. Quella pallottola ancora la conservo».
Ho avuto sempre il sospetto, per quanto riguarda la sua generazione, che abbiano contato più i cantautori che gli scrittori. I cantautori hanno supplito alla diserzione narrativa degli scrittori.
«Credo che sia vero. Soprattutto se pensiamo ai miei quattro grandi: De André, Guccini, Vecchioni e De Gregori. Sono stati i miei poeti. Io, le poesie, non le leggo, non le capisco».
Però è un poeta, Dylan Thomas, che ha dato il nome a Dylan Dog.
«Sì, Dylan viene da lì e non da Bob Dylan come tutti pensano. Mi piacevano molto le poesie di Dylan Thomas. Mi piaceva anche la sua vita, il fatto che fosse alcolizzato, un dannato, un maledetto. Cose di quando ero ragazzo. I cantautori li ho amati tantissimo. Quando è morto De André è stato un lutto tremendo. Sono rimasto sconvolto. In casa me l’hanno tenuto nascosto per due settimane. Hanno strappato da tutti i giornali, anche da quelli che usavo per la cassetta del gatto, ogni riferimento alla morte di De André. Allora, i giornali, li leggevo. Ora, da tantissimi anni, non leggo più i giornali e non vedo la televisione. Non so niente di quello che succede. Ho saputo da poco che c’è un nuovo presidente della Repubblica e solo l’altro ieri ho saputo che si chiama Mattarella. Ma non l’ho mai visto in faccia».
Questo mi ricorda il suo romanzo più ambizioso, «Non è successo niente», quello che piaceva a Fruttero. In copertina aveva una prima pagina di giornale tutta bianca, senza testi.
«Era una citazione di Topor».
Dove le prendeva le sue storie?
«Pescavo dalla vita vera. Giravo sempre con un taccuino. I miei fornitori erano le persone che incontravo: il tassista, la panettiera, i tipi curiosi in cui m’imbattevo. Rubavo tantissimo dalla strada come facevano Age e Scarpelli, i miei sceneggiatori italiani preferiti. Le mie fonti d’ispirazione erano la vita, gli amici. E poi a me sono sempre capitati tizi strani. Una sera c’è stato uno che ci ha portato a casa un pranzo cinese, allora vivevamo a Milano, era alto, credo, due metri e dieci. Era romeno ed era tra quelli che hanno arrestato Ceausescu, il dittatore. Incredibile. Si è seduto con noi e ci ha raccontato la storia della sua vita. Fu quasi surreale».
Ma questa non era una semplice storia, era la Storia con la esse maiuscolissima. Nella «Quinta Stagione», l’album di Dylan Dog appena ripubblicato, ci sono situazioni originalissime e abbastanza sconvolgenti (si parla di un sistema per dimagrire, per esempio, che desta l’orrore puro). Chi gliele ha ispirate?
« La Quinta Stagione faceva parte del mio filone un po’ folle. Ben tre delle storie che contiene sono di mia moglie. La mattina, prendendo il caffè, Cristina mi regalava i suoi sogni. Sogni horror».
Con i suoi venticinque anni di analisi, lei sarà diventato uno specialista di sogni.
«Avevo degli incubi bellissimi con zombi, fantasmi. Sembravano film di Romero. A volte sognavo in stile Nightmare . I più raffinati e spaventosi erano sogni alla Giro di vite , il racconto di Henry James».
Il più bel racconto mai scritto secondo una più che condivisibile scuola di pensiero.
«Terribile, magnifico, ho fatto fatica a leggerlo, di sera, nella mia stanzetta. È bello anche il film con Deborah Kerr».
Come si scrivono le sceneggiature?
«Ho una sola regola. Alla fine di ogni tavola ci deve essere un colpo di scena che costringe il lettore a girare la pagina».
Lo stile dei fumetti ha influenzato quello dei suoi romanzi?
«Sui miei romanzi è meglio stendere un pietoso velo. Patetici tentativi. I miei romanzi sono stati quasi tutti peccati di gioventù. Tutte cose per fortuna dimenticate, andate giustamente al macero».
Alla Bonelli non le hanno mai chiesto di scrivere la sceneggiatura di un «Tex»?
«No. Scrivere Tex è una cosa molto difficile. Tex e Topolino sono le uniche due cose che non ho mai provato a scrivere».
Ce l’avrebbe avuta un’idea per un western?
«Il mio primo romanzo, lo scrissi in seconda media, era un western. Mi piacevano molto i western da piccolo; crescendo, meno. Poi, avendo letto tutti i libri di Fleming ed essendo in crisi di astinenza, mi sono scritto uno 007 per uso personale».
Com’era il suo romanzo western?
«Mi ricordo il titolo, ma il resto è andato perso».
Com’era il titolo?
« Il padrone di Sacramento».
Be’, un titolo texiano, bonelliano. In quell’intervista di vent’anni fa le chiesi se le dava fastidio essere identificato con Dylan Dog. Mi rispose di no. E oggi?
«Vorrei essere sempre Dylan o chiunque altro. Parlo dal punto di vista fisico. Ma anche mentale, non è che la mia testa funzioni benissimo. Se no non prenderei sei psicofarmaci al giorno. Amo gli psicofarmaci, anche se mi hanno rovinato la vita. Avevo scritto un libro dedicato a loro. Ho buttato via anche quello. Che vuole, se non è l’alcol sono le pastiglie. Prendevo il Nardil come Foster Wallace, ma i miei tanti tentativi di suicidio sono stati tutti patetici. Mia moglie dice che ora non corteggio più la morte, come ho fatto per quasi tutta la mia vita, ma ho imparato a temerla».
Speriamo che abbia ragione. Sempre vent’anni fa mi diceva: «Le cose che mi fanno paura le può trovare sull’Enciclopedia Treccani (edizione grande, non quella piccola)». È ancora così?
«No, da allora sono peggiorato. Non guido quasi più. E non credo che riuscirei a guidare più in autostrada. Non ho mai preso l’aereo e mai lo prenderò».
Non crede più in se stesso come scrittore?
«Ci deve essere una grande dose di presunzione per continuare, come ho fatto io per tanto tempo, a tampinare gli editori con le mie proposte, ad accumulare rifiuti. Bisogna crederci proprio tanto. No, non ci credo più. E mi pento di averci creduto. Gli scrittori sono come sciacalli, stanno a guardare gli altri vivere e prendono appunti. Sono ossessionato dal prendere appunti. Tutto questo mi ha impedito di vivere. Perciò non scrivo più. Tutti la considerano una débâcle e la cosa mi intristisce, come se uno è ancora vivo solo se scrive».
La ringrazio per questa intervista speciale.
«E dei miei cani non parliamo? Non mi chiede niente di loro?».