Corriere La Lettura 17.1.16
Fascista . Ma quanto? Il gesto confonde i giudici
Diritto Le norme che vietano ritualità del Ventennio sono interpretate in modi diversi. Il caso
ripropone un quesito complesso: se si debba essere tolleranti nei confronti di chi è intollerante
di Luigi Ferrarella
Stessa
manifestazione politica in due anni diversi, stessi militanti di
destra, stesso saluto romano, stessa città dei processi. Eppure, due
sentenze opposte. Istruttivo esempio delle controversie giuridiche
attorno al saluto romano è questa alterna sorte dei processi sulle
annuali commemorazioni milanesi di ogni 29 aprile per Carlo Borsani,
dirigente della Repubblica sociale italiana ucciso dai partigiani il 29
aprile 1945, dello studente Sergio Ramelli, il militante del Fronte
della gioventù morto il 29 aprile 1975 per le sprangate di
extraparlamentari di sinistra, e dell’avvocato e consigliere comunale
missino Enrico Pedenovi, assassinato da terroristi di Prima Linea il 29
aprile 1976: nel novembre 2015, infatti, sedici militanti di estrema
destra sono stati condannati dalla V sezione del Tribunale di Milano (a 1
mese di reclusione, 250 euro di multa e 16 mila euro di risarcimento
all’Anpi parte civile) per il saluto romano durante la commemorazione
del 29 aprile 2013, ma tra quei condannati figuravano paradossalmente
alcuni degli stessi militanti che, insieme ad altri, nel giugno 2015
erano invece stati prosciolti per il saluto romano nell’analoga
manifestazione del 2014.
Come mai? Il saluto romano è punito sulla
base della «legge Scelba» del 1952, considerata attuazione diretta
della XII di posizione transitoria e finale della Costituzione, e
ritoccata nel 1975 (da contravvenzione in delitto) con pena alzata sino a
3 anni per «chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie
manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di
organizzazioni naziste». In funzione anti-ricostituzione del partito
fascista, la norma presidia non soltanto gli atti finali e conclusivi
della riorganizzazione, ma anche ogni comportamento che, pur non
rivestendo i caratteri di un vero e proprio atto di riorganizzazione,
tuttavia contenesse in sé sufficiente idoneità a produrlo. Ma per
impedire un’ingiustificata compressione della libertà di manifestazione
del pensiero, sin dalle sentenze del 1958 e 1973, la Corte
costituzionale rimarca che non tutte le manifestazioni esteriori di
adesione al disciolto partito fascista sono punibili ma solo quelle rese
in pubblico e idonee, per le circostanze di tempo e luogo e ambiente in
cui si svolgano, a provocare adesioni e consensi alla diffusione di
concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste.
La
misurazione di quest’«idoneità», parametrata sull’«attualità del
pericolo», è andata complicandosi a mano a mano che si è affinata una
prospettazione difensiva che non si avventura più a contestare il
giudizio storico sul fascismo, ma che lamenta l’asimmetria
dell’ordinamento che non punisce simboli di ideologie totalitarie
diverse dal fascismo benché parimenti impregnate di rigurgiti
antidemocratici; e che teorizza l’anacronismo legislativo di una
sanzione del 1952 che sarebbe stata resa inattuale dal tempo trascorso e
dal mutato clima politico. Ma nel 2014 la sentenza della Cassazione,
redatta da Raffaello Magi, sul caso di una manifestazione nel 2012 di
Casapound a Bolzano per le vittime delle Foibe, ha obiettato che
«l’esigenza di tutela delle istituzioni democratiche non risulta erosa
dal decorso del tempo», perché «nulla autorizza a ritenere che il
decorso di ormai molti anni dall’entrata in vigore della Costituzione
renda scarsamente attuale il rischio di ricostituzione di organismi
politico-ideologici aventi comune patrimonio ideale con il disciolto
partito fascista o altre formazioni politiche analoghe».
Da
provare, insomma, resta l’idoneità del saluto romano non a un atto di
ricostituzione ma alla diffusione di concezioni favorevoli alla
ricostituzione di organizzazioni fasciste peraltro non limitabili al
Partito nazionale fascista del 1921. E in questa chiave allargata la
Cassazione valorizza fonti di diritto sovranazionale (ad esempio la
Carta di Nizza del 2000 sui diritti fondamentali dell’Unione europea, e
prima ancora la Convenzione di New York del 1966 sulla eliminazione di
tutte le forme di discriminazione razziale) circa l’incriminazione delle
«pubbliche manifestazioni esteriori riconducibili a organizzazioni che
tra i propri scopi abbiano l’incitamento alla discriminazione o alla
violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
«Nell’erigere
difese contro gli intolleranti — coglie nel 2014 Andrea Longo su
“Osservatorio Costituzionale” — contaminiamo il nostro sistema
(liberale, democratico, pluralista) con porzioni di intolleranza», e
«tuttavia l’esecrabilità di questo peccato contro gli stessi ideali che
la Costituzione difende va tenuta presente e sottoposta a continuo
vaglio se vogliamo evitare di trasformarci nei mostri che combattiamo».
In questo quadro i (meno frequenti) casi di assoluzione dipendono dunque
da controverse valutazioni del contesto del saluto romano. Nell’aprile
2015, ad esempio, il Tribunale di Livorno ha assolto perché il saluto
romano, durante la partita di calcio di serie B tra Livorno ed Hellas
Verona il 3 dicembre 2011, «si è collocato all’interno di una
manifestazione di carattere sportivo» che «non è normalmente il luogo
deputato a fare opera di proselitismo e propaganda politica»: prognosi
opposta a quella valsa invece in Cassazione nel 2013 la condanna per il
volto di Mussolini su una maglietta in un palazzetto di hockey su
ghiaccio.
Allo stesso modo, quando sette mesi fa ha prosciolto i
manifestanti milanesi del 29 aprile 2014, la gip Donatella Banci
Buonamici ha valutato che la manifestazione, svoltasi «in assoluto
silenzio» e partecipata da persone che «mai hanno anche solo accennato a
comportamenti aggressivi», aveva sì «una indubbia simbologia fascista»,
ma «in concreto era esclusivamente rivolta ai defunti, in segno di
omaggio e umana pietà, e non aveva alcuna finalità di restaurazione
fascista»: motivazione criticata dal ricorso presentato dal pm Piero
Basilone, secondo il quale l’assoluzione avrebbe fatto confusione «tra
il profilo oggettivo dell’offesa e quello soggettivo del motivo di
agire». Basilone, all’interno del pool del procuratore Maurizio
Romanelli, appena prima di Natale ha ottenuto davanti alla XI sezione
del Tribunale di Milano la più recente sentenza (ancora da motivare) sul
tema: la condanna a un mese e 10 giorni di un avvocato milanese (figlio
dell’uomo che nel 1946 trafugò la salma di Mussolini) che l’8 maggio
2013 nell’aula del Consiglio comunale di Milano fece il saluto romano
durante una seduta della commissione sicurezza e coesione sociale sulla
gestione dei campi d’accoglienza per rom e sinti.