Corriere La Lettura 17.1.16
E l’Arma diventò una banda I carabinieri di «Gerolamo»
Una formazione partigiana molto attiva ma slegata dai partiti e poco considerata dagli studiosi
I documenti e i racconti delle quattro figlie del comandante : «Testardo e silenzioso, aveva quattro amori»
La
Resistenza dimenticata del maggiore Ettore Giovannini che a Milano
organizzò la Benemerita contro i nazifascisti Sabotaggi, combattimenti,
fucilazioni. Poi l’alba del 25 aprile
di Andrea Galli
Stanislao
Sajevic, studente; Stanko Breskvar, contadino; Paolo Vercic, operaio...
L’elenco comprendeva ventidue internati. Il 12 aprile 1943, da Lubiana,
nella Slovenia occupata, il maggiore dei carabinieri Ettore Giovannini,
a capo del XIV Battaglione mobilitato, scrisse ai propri vertici e
chiese l’immediata liberazione di quegli uomini, prigionieri dei campi
di concentramento nonostante fossero «senza precedenti penali e
politici» e nonostante i rispettivi familiari avessero sempre mantenuto
una «buona condotta sotto ogni rapporto»; del resto «il provvedimento
adottato nei loro confronti non è stato motivato da particolari accuse,
ma unicamente per misure precauzionali di carattere generale». L’azione
di Giovannini, nato a Trapani nel 1897 da Domenico, ufficiale
dell’Esercito di stanza in Sicilia, e dall’umbra Zelinda, ebbe risultati
minimi, ma pesanti conseguenze: i capi non gradirono (eravamo stati
proprio noi italiani a catturare gli sloveni...) e il nome di
Giovannini, reduce dai principali fronti delle due guerre mondiali,
dalla Bainsizza alle Ardenne, dalla Spagna alla Grecia, iniziò a
diventare fastidioso. Era uno da non prendere in considerazione per
proposte di avanzamenti di carriera.
«Papà era così», dicono le
splendide e lucidissime quattro figlie (l’unico figlio maschio è
deceduto) rintracciate da «la Lettura» a Napoli, dove vivono: Giuliana
(92 anni), Paola (89), Franca (87) e Giovanna (85), che sono state
insegnanti, presidi e, nel caso dell’ultima, direttrice amministrativa
della Normale di Pisa. «Nostro padre era testardo e silenzioso. Aveva
due amori, anzi quattro. La famiglia, l’Arma, e poi la monarchia e le
sigarette. Aveva le sue convinzioni e per quelle era disposto a
combattere anche da solo». Capitava di rado. A Milano, quando dal 1944
al 1945 Giovannini guidò la Banda Gerolamo, formazione di carabinieri
ribelli che non aderirono a Salò e fecero la guerriglia contro i
nazifascisti, fornendo alla Liberazione un energico contributo — in gran
parte inedito perché dimenticato o sottovalutato dalla storiografia
della Resistenza —, lo seguirono in settecento. Alcuni disertarono e si
diedero alla clandestinità; altri, per decisione del maggiore, come
scritto nel rapporto riservato e scovato nell’Ufficio storico dei
carabinieri, ricco di segugi-archivisti, restarono «in seno alle forze
fasciste». Lotta e doppio gioco, armi e tattica.
La radio del duca e il lager di Dachau
Il
documento, protocollato con il numero 138/129 di cui «la Lettura» è
venuta in possesso, consta di sette pagine scritte a macchina. A pagina 2
Giovannini spiegava la necessità di mantenere carabinieri in organico
nelle stazioni e nei comandi dell’Arma passati sotto il controllo della
milizia fascista, la Guardia nazionale repubblicana (Gnr): questi
elementi avrebbero dovuto «compiere azioni di sabotaggio morale e
materiale, sottrarre mezzi alle forze nemiche, nonché fornire
tempestivamente le informazioni occorrenti». I suoi uomini, tanto per
cambiare, presero alla lettera gli ordini e si applicarono con una
dedizione che portò anche alla morte: Giuseppe Andraoni, inviato in
missione fuori regione ad Acqui Terme, in provincia di Alessandria, per
assaltare un deposito di pistole, mentre era in un albergo in attesa del
contatto con l’informatore che forse lo tradì, fu stanato dalle camicie
nere, portato al cimitero e fucilato in mezzo alle lapidi.
C’erano
pericoli e rischi. Il tenente Antonio Cicerale («Giovane colto ed
educato, molto amato da papà», dicono le figlie nell’elegante
appartamento della primogenita al Vomero, in un palazzo liberty,
tendaggi, tappeti, quadri, un po’ d’ombra e bicchierini di ginger
offerti agli ospiti), classe 1918, figlio di una coppia di salernitani
emigrati in cerca di fortuna a Bridgeport, città costiera non lontana da
New York, guidò la tenenza «Duomo» dei carabinieri e intanto superò
venti volte il confine svizzero, diretto alla villa del duca Marcello
Visconti di Modrone, che ospitava una radio trasmittente per parlare con
gli Alleati. Dopo l’ennesima «fuga», i tedeschi sorpresero Cicerale e
lo trasferirono in un campo di concentramento. Val la pena leggere il
passaggio che, nel documento, Giovannini riserva a Cicerale: «Corriere
clandestino di eccezionale coraggio, mio primo coadiutore nella
costituzione della formazione, fu arrestato nel 1944 per la sua
attività, e pagò l’abnegazione con atroci torture e con il lungo
martirio a Dachau». Il tenente, che aveva conosciuto il comandante a
Lubiana, sopravvisse, ma le sofferenze gli minarono irrimediabilmente il
fisico, fino alla morte a Bordighera nel 1974.
Se Cicerale fu il
braccio destro del comandante, il vero vice «operativo» fu il capitano
Francesco Della Ventura, originario di Caserta, di un anno minore
rispetto a Giovannini. Del capitano rimane un parente, Salvatore Lo
Storto, dirigente dell’Inps in pensione che abita a Pistoia: «Mi ricordo
la macchina e un aneddoto. La macchina, una Augusta, era il sogno
cullato durante la guerra: ne teneva una foto in tasca; riuscì ad
acquistare la Augusta, ma cadde praticamente in rovina... L’aneddoto è
invece legato alla Sardegna. Andò a reggere la tenenza di Isili, piccolo
paese in provincia di Cagliari. Appena si presentò, i notabili lo
presero in custodia e lo obbligarono, affinché venisse “accettato”, a
partecipare alla caccia di un porcellino da latte». Nelle lunghe ore
della vigilia e della giornata del 25 aprile, Della Ventura, lodato
dagli americani per le capacità nello spionaggio, ricevette in affido da
Giovannini il comando delle squadre incaricate di assaltare le caserme
milanesi in mano ai nazifascisti. In quella resa dei conti che aveva
avuto un’intensa fase preparatoria.
Moschetti, volantini, tanto cibo
Il
plotone diretto dal brigadiere Antonio Basile, il 28 aprile 1943, aveva
sabotato il cavo telefonico militare da Milano a Gallarate e quello di
Luigi Saggin, l’indomani, aveva firmato un blitz nelle caserme per
diffondere volantini che incitavano alla diserzione; nel dicembre
successivo, un manipolo di carabinieri, comandati dal sottotenente
Franco Alongi, aveva fatto irruzione nel campo di tiro di Mombello e
recuperato 47 mortai pronti per essere spediti al fronte; all’inizio del
1945, il maresciallo Antonio Carretto, con l’aiuto di pochi uomini,
aveva ingaggiato un conflitto a fuoco con i tedeschi a bordo di una
colonna di mezzi, andati danneggiati. Il miglior incursore di
Giovannini, che partì da una decina di carabinieri fedeli e riuscì a
estendere l’«esercito» organizzandolo sul modello dell’Arma (squadre,
plotoni, compagnie, battaglioni), fu comunque il capitano Silvio
Cavanna, capace, grazie al lavoro di «copertura» nel magazzino del
comando provinciale della Gnr, di dirottare armi, uniformi, cartucce per
pistole. E cibo. Cibo, cibo.
Da guerriglieri quali erano
(Giovannini rifiutò tassativamente coperture e appoggi politici,
accettando di collaborare soltanto con gli alpini), la Banda Gerolamo
ebbe un grosso immediato problema: i soldi. I primi mesi, si fece la
fame. Fame vera. Ma per fortuna era pur sempre l’Italia. Anche e forse a
maggior ragione nel caos. Raccontano le sorelle Giovannini: «A ogni
ritorno a casa, papà non voleva parlare delle guerre, per tacere di
quella in Grecia: si salvò per miracolo, lo ricoverarono tre volte, il
gelo delle montagne, gli stenti delle ritirate... Allo stesso modo fu
generico nel 1944 quando ci comunicò che sarebbe dovuto andare a Milano.
Per noi trovò una casa in provincia di Padova, in aperta campagna, con
un giardino dove giocavamo con la bicicletta; per frenare si doveva
pedalare all’indietro; ce l’aveva portata in dono dalla Slovenia anche
se, in verità, era alta per tutte e quattro... Più tardi dal Veneto ci
trasferì a Brunate, sopra il lago di Como». A Brunate, dice la memoria
storica Nilo Bernasconi, 80 anni, c’era il Grand Hotel Milano. Sorto nel
1910, con la guerra si «aprì» agli sfollati. O almeno a quelli che se
lo potevano permettere. Come la famiglia Giovannini. Finita sotto la
«protezione» del padrone della Snia Viscosa, Franco Marinotti.
Nel Grand Hotel con i ras fascisti
Imprenditore,
sostenitore di Mussolini da cui dopo si distanziò, un lungo passato di
lavoro e di relazioni nell’ex Unione Sovietica, già vice podestà di
Milano, Marinotti avvicinò Giovannini. Nel dubbio era meglio tenersi
buoni tutti. E infatti, se un centinaio di carabinieri furono assunti
nelle sue aziende come operai (senza lavorare, ma unicamente per
percepire lo stipendio), in quel Grand Hotel Milano, dove Marinotti era
una specie di padrone di casa, c’era gente d’ogni provenienza. «La
camera dove stavamo con mamma Licia era davanti a quella di un ras
fascista romano... Giocavamo in corridoio con i suoi figli piccoli,
eravamo diventati amici... Papà è stato una straordinaria figura... ma
anche mamma... Terminati i compiti, organizzava feste di ballo per
portare l’allegria... fu sua l’idea di avviarci fin da subito a un
mestiere. Io — spiega la primogenita Giuliana — andai a fare un corso di
stenodattilografia. “Casomai papà non tornasse, dobbiamo tenerci
pronte”, ripeteva mamma». Ma Giovannini, nel prosieguo della carriera
divenuto colonnello e spostato in varie città fino all’ultimo incarico a
Napoli (come sempre è impossibile accertare se un avanzamento
corrisponda davvero a una promozione), aveva la pelle dura. La Banda
Gerolamo cresceva di numero, le offensive aumentavano. Una squadra aveva
recuperato nel municipio di Novate Milanese centinaia di carte
d’identità per poter girare con documenti «falsi»; altre formazioni
avevano interrotto la linea ferroviaria Milano-Varese, bloccando i
movimenti delle truppe tedesche, e si erano scontrate in città tra le
macerie dei bombardamenti con la temibile legione fascista «Ettore
Muti». Proiettili, corpo a corpo, inseguimenti. Il gran finale arrivò
quasi naturalmente. Una delle lotte conclusive, nella caserma di via La
Marmora, durò due giorni, a causa del grosso spiegamento di forze
nemiche a difesa. Meno tempo servì per liberare il comando di via
Moscova e la caserma di via Fiamma, o per scacciare la Decima Mas dal
«fortino» dell’allora piazza Fiume (oggi piazza della Repubblica).
E
nella città liberata, il comandante Giovannini poté finalmente
smetterla. Smetterla di fumare al contrario (la parte della sigaretta
con la brace tenuta in bocca, come avveniva in trincea, per non dare al
cecchino un punto luminoso di riferimento); e smetterla di usare il nome
di battaglia di «Gerolamo». Sì, come la sua Banda. Ogni carabiniere ha
un nome di battaglia. Giovannini, dicono le figlie, lo prese in prestito
da un ricordo d’infanzia. I Gerolamo erano una famiglia di burattinai:
da bambino, quando per un’estate si erano fermati in piazza a Trapani,
il piccolo Ettore non si era perso uno spettacolo.