venerdì 8 gennaio 2016

Corriere 8.1.16
Borse mondiali, la Cina fa ancora paura
Shanghai sotto del 7%, scambi bloccati. Giù l’Europa, Milano limita i danni (-1,1%). Cade Wall Street (-2,15%)
di Guido Santevecchi


PECHINO   Ordini e contrordini si rincorrono nel «mercato con caratteristiche cinesi», ma il sogno dirigista del governo di dominare anche la Borsa non funziona. Ieri quella di Shanghai ha vissuto il suo giorno più corto: chiusa per eccesso di ribasso dopo 29 minuti di contrattazioni. La seconda volta nel giro di quattro sedute che è scattato «l’interruttore» alla soglia del 7% di perdite delle azioni. Nei primi 13 minuti l’indice CSI300 di Shanghai, subissato da ordini di vendere, ha ceduto il 5% e il meccanismo automatico appena introdotto dall’autorità di controllo ha bloccato i computer. Un quarto d’ora di stop, poi la ripresa, come da nuovo regolamento: un solo minuto e lo CSI300 ha toccato -7,2%. E allora seduta finita dopo 29 minuti compresi i 15 del primo fermo. Stop anche a Shenzhen.
L’interruttore di Borsa era entrato in vigore il 4 gennaio, per limitare la volatilità, ma a quanto pare l’ha amplificata e così ieri notte a Pechino hanno deciso di spegnerlo. «L’impatto negativo del meccanismo di stop ha superato quello positivo, quindi per proteggere la stabilità del mercato abbiamo deciso di sospenderlo», ha annunciato l’Autorità di controllo della Borsa cinese. Cambiano le regole anche per i grandi pacchetti azionari: scaduto dopo sei mesi il divieto di vendere per gli azionisti che controllano oltre il 5% di un titolo, da oggi una nuova norma impedisce a chi possieda più del 5% di un titolo di cederne più dell’1% nell’arco di tre mesi e richiede una comunicazione scritta 15 giorni prima della vendita delle quote. Un altro meccanismo dirigista e farraginoso.
Lo sprofondo rosso delle azioni cinesi si è sommato alle incertezze sullo yuan. La moneta cinese continua a svalutarsi sul dollaro: ieri la People’s Bank of China ha fatto scendere il cambio medio dello 0,5%, il deprezzamento più importante in un giorno da quello del 2% ad agosto e l’ottavo giorno di fila di declino. Lo yuan è caduto a 6,595 sul dollaro, il cambio più basso dal febbraio 2011 e alcuni analisti prevedono che arrivi a 7 entro fine anno. Per sostenere lo yuan la Banca centrale ha speso 107 miliardi di dollari a dicembre (ne restano comunque 3,3 trilioni in cassa a Pechino).
Le pene della Borsa cinese e il sospetto che la discesa dello yuan sia la prova definitiva di un’economia in frenata grave e di problemi che Pechino nasconde, hanno creato un effetto a catena: l’oro è tornato sopra 1.100 dollari l’oncia per la prima volta in nove settimane come rifugio dalle ombre cinesi; il prezzo del petrolio è caduto di un altro 5% a 33 dollari al barile, il minimo da 12 anni, sulla previsione che una domanda più debole da parte di Pechino si aggiunga all’eccesso di produzione dovuto anche dal rientro sul mercato del greggio prodotto dall’Iran. Così le Borse mondiali hanno ripreso a scendere (Tokyo -2,3% e Hong Kong -3%), salvo recuperare parzialmente dopo la diffusione della notizia sull’abbandono del meccanismo interruttore: Milano ha chiuso a -1,14%, Parigi ha perso l’1,72%, Francoforte il 2,29% e Londra l’1,96%. Male Wall Street con il Dow Jones arrivato a cedere il 2,15%.
George Soros ha detto a Bloomberg che «la Cina ha un problema di aggiustamento e quando guardo ai mercati vedo difficoltà che mi ricordano il 2008», quando partì la crisi devastante. Anche la stampa cinese ha evocato immagini allarmanti, per sostenere le riforme di Xi Jinping. A dicembre i giornali hanno ripreso un discorso pronunciato dal presidente nel 2013: Xi allora disse «La Cina è un grande Paese, non possiamo commettere errori in questioni fondamentali, perché se il Titanic comincia ad affondare, affonda».
Ma gli ordini e contrordini del timoniere cinese stanno proiettando un senso di panico sui mercati: l’introduzione e la sospensione dell’interruttore in Borsa e anche la proroga della restrizione sulle vendite dei titoli da parte dei grandi azionisti fanno pensare a molti investitori che sia meglio sbarcare dal transatlantico e aspettare tempi più chiari.