Corriere 29.1.16
La balena che sfidò la Bibbia
di Pietro Citati
Rileggo
Moby-Dick o la balena di Herman Melville nella bellissima traduzione di
Ottavio Fatica, uscita da Einaudi. Quale libro tremendo. Non è un
romanzo ma un’enciclopedia, che si propone di distinguere e classificare
le balene e i capodogli: pensiamo alle grandi enciclopedie medioevali,
come quella di Isidoro di Siviglia. Tutto vi è, in ogni parola,
infinitamente minuzioso e grandioso: enciclopedia di animali e di dèi.
L’universo delle balene, che prima di allora non era mai stato
rappresentato — Melville vi insiste di continuo — viene per la prima
volta alla luce; e ci travolge con la sua novità senza pari, sebbene si
ricordino tutti coloro che hanno appena accennato ai capodogli, i più
grandi abitanti della terra e del mare. Quello di Moby-Dick è un
sistema: un sistema precisissimo; eppure questo sistema resta
incompiuto, come la cattedrale di Colonia. «Dio mi guardi mai dal
completare alcunché! Tutto questo libro non è che un abbozzo, anzi
l’abbozzo di un abbozzo»: un abbozzo grottesco, rabelaisiano.
Chi
ha composto questo abbozzo? In apparenza, Ishmael, sebbene non possiamo
essere nemmeno certi del suo nome. Non è un baleniere, ma un grammatico,
che possiede una cultura strana; e diventa un baleniere dilettante. Se
lo studiamo con attenzione, ci accorgiamo che egli non è altri che
Giobbe: ha scritto il più paradossale libro della Bibbia: testo che ci
sfugge come un’anguilla o una piccola murena: più forte lo si prende,
più velocemente sfugge dalle mani.
Nel Libro di Giobbe , Dio
prende la parola, e come sua abitudine esalta sé stesso. Egli si esalta
come autore dell’immensa e meravigliosa creazione di cui è sommamente
fiero. Non c’è nessun evento che ignori ripercorrendo la Genesi e i
Salmi : versetto dopo versetto. Ricorda il giorno in cui le stelle lo
acclamarono e gridarono la loro gioia: il giorno in cui Egli dominò il
mare, spezzando il suo slancio e imponendogli confini, spranghe e
battenti, dicendogli «fin qui verrai e non oltre»: quando fece sorgere
l’aurora, distribuì la luce e la tenebra, controllò i serbatoi della
neve e della grandine, diresse piogge e rugiada, accese le Pleiadi,
Orione, lo Zodiaco, l’Orsa, foggiò la sapienza dell’ibis, la perspicacia
del gallo, la leonessa cacciatrice, il cervo, l’asino selvaggio, lo
struzzo; e quando, sopratutto creò i grandi mostri che realizzarono la
Sua immaginazione furibonda, Behemoth e il Leviatano. Il Libro di Giobbe
rinasce in Moby-Dick: Melville rivaleggia miracolosamente con la
Bibbia: Giobbe diventa Ishmael; e il Leviatano riappare con la propria
enorme grandezza nella figura di Moby-Dick, il capodoglio, la balena
bianca.
Il capodoglio si muove quasi sempre da solo, affiorando
inaspettatamente alla superficie nelle acque più remote: possiede una
potenza e una velocità così mirabili, che sfidano ogni inseguimento da
parte dell’uomo. È una creatura ultraterrena: vive nel mondo senza
essere del mondo: conosce l’universo con occhi piccolissimi e orecchi
più esili di quelli della lepre. Diffonde attorno a sé un soavissimo
profumo di muschio. Ezechiele aveva detto: «Tu sei come un leone delle
acque e come un drago del mare». Il capodoglio è più intelligente
dell’uomo, e schernisce la sua intelligenza limitata. Scuote in aria la
propria coda tremenda, che, schioccando come una frusta, riecheggia a
tre o quattro miglia di distanza. Obbedisce a Dio.
Moby-Dick è
molto più che un capodoglio: è una balena bianca: una fontana di neve;
discende dalla «grande figura bianca dal volto velato», che conclude ed
incorona il Gordon Pym di Poe. Questo bianco ha un doppio significato:
colore divino ed infernale: culmine religioso ed orrore nefando: simbolo
della passione di Gesù Cristo e di Satana; figura celeste e
terrificante male assoluto. Vive in un mare diverso dal resto
dell’oceano: un mare sacro come quello che solcavano gli antichi
persiani: immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; magnanimo,
inconoscibile, imperscrutabile. Soltanto in esso risiede la suprema
verità di Dio, il quale non conosce né limite né sponde: «Meglio perire
in quell’infinito urlio smosso di onde che farsi ingloriosamente
sbattere sottovento, anche se vivi». I balenieri e gli uomini devono
abitare nel mare come il gallo prataiolo che abita nella prateria, e
nascondersi tra le onde, come i cacciatori di camosci scalano le Ande.
Nel
Primo libro dei Re era apparso il re Ahab, il quale peccò agli occhi
del Signore molto più di tutti i suoi predecessori, costruendo un altare
al dio Baal e prosternandosi davanti a lui, fino a quando i cani
leccarono il suo sangue. In Moby-Dick il re Ahab diventa il capitano di
una baleniera, il Pequod: ha una gamba sola; l’altra è stata «divorata,
maciullata, torturata» dalla balena bianca e sostituita da una gamba
d’avorio. Egli ha studiato all’università: è empio: possiede una
stravagante cultura; e si chiude nel silenzio. Scorge nella balena
bianca una forza oltraggiosa, una malvagità imperscrutabile, che lo
angoscia. Egli è dominato da una sola ossessione: quella di ritrovare
negli oceani e di uccidere Moby-Dick.
«Chi di voi — grida ai
marinai — mi segnalerà una balena con la testa bianca, la fronte rugosa e
la ganascia storta; chi di voi mi segnalerà quella balena con la testa
bianca e tre buchi nella pinna; chi di voi mi segnalerà proprio quella
balena bianca, avrà un’oncia d’oro». «Sì, sì — urlarono ramponieri e
marinai affollandosi attorno al vecchio esagitato —. Aguzza l’occhio per
la Balena Bianca; aguzza il rampone per Moby-Dick!». Sia per Ahab sia
per i marinai, tutto il male del mondo è personificato da Moby-Dick: nel
loro desiderio di punizione e di vendetta, essi riversano sulla balena
tutto l’odio e la rabbia, che l’intera umanità ha accumulato dai tempi
di Adamo. La loro caccia è doppia, come tutto è doppio in Moby-Dick :
obbedisce a un sovrano messaggio del Signore, ed esprime una demenza
totale, ignobilmente blasfema, una furia diabolica, che si rivolge
contro il Signore.
Altre volte un capodoglio era stato ucciso da
una baleniera: il mostro aveva diguazzato oscenamente nel proprio
sangue, con una folle spruzzaglia ribollente e impenetrabile,
sbatacchiando contro la nave la sua pinna ferita. Ma la caccia a
Moby-Dick è immensamente più difficile, perché essa era protetta dalla
mano di Dio che la maledice. Ogni onda del mare era intrisa di barlumi
demoniaci. Finalmente, sulla nave, tutti gli uomini di guardia
avvertirono l’odore particolare propalato dal capodoglio anche a grande
distanza; e scorsero la gobba bianchissima e il getto silenzioso,
scagliato a intervalli regolari.
Moby-Dick era una specie di
Iddio, sia del bene sia del male. Sbandierò la coda in aria come un
monito: si rivelò in tutta la sua grandezza, si inabissò, disparve,
risalì alla superficie. La sua bocca aperta e scintillante con la
mandibola circonvoluta si spalancò sotto la nave come una tomba
scoperchiata. Prese in bocca l’intera prua assaporandola lentamente: il
bianco perla turchiniccio all’interno della mandibola giunse a meno di
sei pollici dalla testa di Ahab, soverchiandola.
Come un’immensa
cesoia, la mascella troncò di netto il legno della nave: Ahab cadde in
mare a faccia in avanti, gridando: «Fate vela sulla balena!». Moby-Dick
scomparve. Si udì un sordo romorio, un rombo sotterraneo. Tutti
trattennero il fiato, mentre una forma immensa balzò per lungo ma di
sbieco contro la nave: sembrava un salmone scagliato contro il cielo.
Scomparve in un gorgo bulicante. Ahab risalì sulla nave con una gamba
sola; la gamba d’avorio gli era stata strappata via un’altra volta; ne
restava uno spezzone corto ed aguzzo. Egli scagliò il ferro feroce, con
una maledizione ancora più feroce, sull’odiata balena. Gridò: «Ti vengo
incontro rollando, balena che tutto distruggi e non riporti vittoria;
fino all’ultimo mi batterò contro di te; dal cuore dell’inferno ti
pugnalo; in nome dell’odio ti sputo in faccia l’ultimo respiro». Tutto
scomparve all’inferno: Moby-Dick, la nave, Ahab, i marinai, il libro
meraviglioso che in questo momento finiamo di leggere. «Come cinquemila
anni fa — diceva Melville — il grande sudario del mare si srotolò
rollando».
Sopravvisse solo Ishmael, il grammatico dietro il quale
Melville si era nascosto durante la traversata del mare e del libro.
Venne tenuto a galla da una bara. Il secondo giorno un veliero si portò
più vicino a lui, sempre più vicino, e alla fine lo raccolse. Così, dice
Ishmael di nuovo con le parole di Giobbe, «io tutto solo sono scampato
per rappresentartelo».