Corriere 25.1.16
Lo spirito anti-dogmatico dell’arte comica
di Luciano Canfora
Totò
era di destra o di sinistra? Questione insolubile e mal posta. Era un
grande comico, le cui frecciate, se e quando davvero efficaci,
centravano il bersaglio: non importa a vantaggio di chi. La commedia e
la satira muoiono se scelgono di orientarsi rispetto a un committente
politico o se si propongono di dire, o peggio di tacere, in funzione di
una convenienza politica. Vivono, trionfano o precipitano, solo se si
prendono per intero la loro libertà. Non per questo però sono
qualunquiste: sono arte comica, né più né meno. E quindi potremmo dire,
nel solco della Poetica di Aristotele, che producono «catarsi» comica.
La catarsi dello spettatore di fronte alla tragedia passava attraverso
l’operazione mentale-emotiva e terapeutica di immedesimarsi nel dolore e
nella sofferenza dei grandi personaggi messi in scena: la catarsi
comica consiste nel condividere sull’istante la fulminante frecciata
politica o di costume messa sulla scena e nel dismettere, in quel
momento, la propria appartenenza o faziosità politica o anche etica.
Ecco perché la satira e la commedia sono liberatorie, oltre che
salvifico antidoto al dogmatismo.
Si deve pensare dunque che siano
anche portatrici di verità, della verità? Non necessariamente. Dire con
fulminante efficacia e senza autocensure o reticenze ciò che davvero si
pensa — il che è proprio dell’artista comico — non significa di per sé
essere nel vero. Anche perché, cosa sia propriamente la verità nella
lotta politica, cioè nello scontro quotidiano su cui si fonda e di cui
si nutre la vita associata, è questione tutt’altro che agevole. Con
sommaria sentenza si potrebbe dire che la verità della politica si
manifesta sui tempi lunghi ed è però sempre provvisoria (nessuna
sentenza della storia è definitiva), mentre la verità della satira è
istantanea. Se assumessimo quest’ultima come unica vera andremmo
incontro a una frantumazione intellettuale, sentimentale e pratica, a un
pulviscolo di pulsioni autentiche e contraddittorie, forse nocive,
certo inconcludenti. La verità della satira è essenziale, indispensabile
correttivo del costringente «sentire collettivo», che a sua volta è
l’inevitabile effetto dello schieramento in politica. Perciò un comico,
grande o meno grande che sia, non può a lungo capeggiare una formazione
politica, per quanto non convenzionale essa sia.
Di ciò sono per
lo più consapevoli gli stessi artefici di satira ma soprattutto i
fruitori e destinatari di essa. È intuitivo saper distinguere il tempo
del ridere e dell’indignarsi e il tempo del riflettere. Il più grande
comico del mondo occidentale, l’ateniese Aristofane, in una commedia
ferocemente politica intitolata Cavalieri , fece a pezzi il più potente
uomo politico del momento, quel Cleone che lo storico Tucidide definì
«l’uomo di cui maggiormente il popolo si fidava». Siamo nel
gennaio-febbraio dell’anno 424 a.C. Cleone ha da poco conseguito un
grande e imprevisto successo militare, è dunque popolarissimo. Di lì a
poco ci saranno le elezioni, o forse ci sono appena state. Il pubblico
destina ad Aristofane la vittoria, l’ambitissimo primo premio. Ma
rielegge Cleone stratego.